domenica 25 novembre 2007

L'ermafrodito

Lo conobbi d’estate. Lo notai perché mi somigliava; mi faceva pensare all’ermafrodito.L’archetipo del mostro mitologico, diviso in due perché troppo potente, mi ha sempre affascinato. Era diventato pure l’argomento della mia tesi, dal titolo “Maschile, femminile e neutro nel romanzo barocco veneziano di Giuseppe Marini Il Calloandro fedele”.I due protagonisti, Calloandro e la speculare Leonilda, sono eroi duplici, in continua trasformazione, molto annoiati dai cliché di corte.L’intreccio è ingarbugliato, si perde il filo, i maschi si travestono da femmine e viceversa, in una confusa escalation di scambi di ruolo. Nel labirintico romanzo i due si guardano, s’innamorano e si perdono. Dopo rocambolesche peripezie si rincontrano per caso a una giostra, lei indossa un'armatura che non è la sua, lui pure: non si riconoscono. Si fronteggiano, combattono e per poco non s’ammazzano.Il duello simboleggia il pericolo che scaturisce dall’unione delle due metà del prodigioso essere; avevo quasi convinto pure la mia relatrice. I poveri e inconsapevoli innamorati sono parti dello stesso tutto, gemelli siamesi divisi alla nascita, alla perenne ricerca l’uno dell’altra; devono lottare contro la passione, freudianamente parlando contro l’ES, e quindi contro loro stessi, per potersi finalmente ricongiungere. Avrei voluto gridargli “Scopate invece di combattere!”Lui era sicuro di avermi già incontrata, forse a qualche festino, quasi sicuramente sotto l’effetto di una massiccia dose di qualcosa, molto probabilmente pillolette con cuoricini fucsia stampigliati su.“Considerando il mio grado di entropia”, gli risposi citando seria la definizione dell’elettrone attorno al nucleo , “è improbabile, ma non impossibile”. Lui rise in un certo modo, e io pensai “omosessuale”, poi sperai “magari è bi”; l’idea che fosse un semplice etero non mi sfiorò minimamente. Invece dell’armatura, aveva una cinta a placche metalliche zeppa di strass, con un cuore rosso e la scritta I’m sexy di paillettes dorate, che io trovavo orribilmente bella e volevo assolutamente farmi regalare. Era scomposto come un bambino viziato, un dandy, anche se mi accorsi subito che la sua cultura era decisamente pop (nel senso di popular).Aveva una faccia che si poteva felicemente definire da schiaffi, e mai espressione sarebbe risultata più adatta.Mi accorsi subito che l’amica che era con lui mi fissava infastidita.Ci ritrovammo tutti a ballare in un bar sulla spiaggia, e quella che inizialmente era niente altro che una semplice sensazione si rivelò esattamente la pura verità: la donna ci controllava a vista. Lui continuò a non farsi grossi scrupoli, mi guardava di sottecchi e cercava di starmi il più vicino possibile. Quando riusciva a sfuggire la vigilanza ne approfittava per accarezzarmi il collo, mi passava le dita fredde di ghiaccio sulla schiena sudata e poi tornava veloce a concentrarsi sul bicchiere che aveva in mano.Io rabbrividivo di piacere, ma valutando la maggiore massa corporea dell’altra, cercai di allontanarlo rifilandogli di nascosto una serie di pizzicotti.Il tentativo non lo allontanò affatto anzi, sembrò divertirlo. Un paio furono forti come morsi, ma il signorino non fece una piega e rimase nei paraggi.Mi guardai le dita indolenzite e mi accorsi che sotto le unghia c’era del sangue. Alzai gli occhi su di lui e, per un attimo, intravidi la punta lucida e brillante della lingua che gli saettava tra i denti bianchi, come quella di un serpente.Gli piaceva, allo stronzo, e quando lo capì ebbi un lieve giramento di testa.Il mattino seguente, con un'espressione finto-colpevole, un bambino sorpreso con le mani nella marmellata, mi consegnò la cinta, ridotta in sei sette piccoli pezzi.Passai il resto della giornata sempre in compagnia di qualcuno.Lui era in fibrillazione, ma la sua volontà era pari a zero e allontanare il mastino da guardia che si portava dietro come marchio d’infamia non era qualcosa che io volevo o anche solo sarei stata in grado di fare.Venni a sapere che lei non beveva né fumava mai troppo, per non distrarsi e rischiare di perderselo per strada, che aveva più volte malmenato persone e, in definitiva, non aveva un buon carattere.Io faticavo a esercitare il dominio su me stessa, figuriamoci su un altro essere umano.L’infame schiavetto se ne stava tutto il tempo fermo e docile sotto l’ombrellone, legato a un’immaginaria corda lunga non più di una decina di metri. Appena lei si distraeva, però, mi cercava come una droga. Non riusciva a trattenersi; l’idea di un passaggio di mano, una prospettiva nuova e sconosciuta, che lo avrebbe liberato e immediatamente dopo incatenato a un giogo diverso, e quindi più desiderabile, non lo faceva stare nella pelle.Con me non ci aveva mai veramente provato, forse neanche ci sarebbe riuscito, ma aveva imparato a soddisfare le donne senza doverle necessariamente scopare, e scommetto che conosceva altrettanto bene i modi per allettare gli uomini. Con entrambi applicava lo stesso sottile ricatto.Una sera, lucida come un’antropologa che studia la natura umana, gli procurai un graffio lungo e profondo sulla parte destra del torace; fu l’unica volta che gli venne veramente duro.Il giorno dopo il segno rosso faceva bella mostra di sé sul suo petto abbronzato e implume, sembrava un punto esclamativo tremolante e sghimbescio. Passandosi le dita sulla ferita che andava rimarginandosi, lui mi disse con aria sognante “A contatto col mare brucia un casino”. La sua donna, poco lontano, mi guardava con odio. Mi prese un'ansia da giustizia universale e, in una specie di confronto alla mezzogiorno di fuoco, la affrontai, “Perché continui a starci insieme?” le chiesi, rendendomi perfettamente conto che era la domanda più stupida che potessi fare.“Cosa?” sbottò lei infuriata; tutto si aspettava fuorché quel mio tono partecipativo, “Lasciaci in pace” continuò bypassando la mia domanda senza sforzarsi neanche per un secondo di capire.“Cosa?” feci io a mia volta visto che, va bene tutto, ma fino a prova contraria era lui che, a una certa ora della notte, veniva a cercarmi come un cagnolino sbavettante; provai a spiegarglielo, “Guarda che è lui che…”“Lo so ma tu la devi smettere” disse la Kapò senza farmi finire, “sei uguale a lui” continuò con la rabbia che le montava sulla faccia “cattiva e malata”.Lui, protetto dietro le sue spalle, mi guardava adorante. “Ma guardati tu, piuttosto” sbottai fremente, “e non mi dire che è la prima volta perché non ci credo, lo farebbe con chiunque, per lui è un gioco, non lo capisci?”, insistevo per nessun motivo in particolare, solo per avere ragione, forse, “tanto io non lo voglio” continuai sprezzante “ho provato a mandarlo via, ma torna sempre” dissi, con la consapevolezza istantanea che la compagnia malsana cominciava a dare già i suoi frutti bacati.Due lacrimoni le spuntarono inaspettatamente dagli occhi iniettati di sangue, sembrava che parlasse di una povera vittima nelle grinfie malefiche di una mantide tentacolare, “Per farlo smettere non devi fare così…” piagnucolò isterica.“Vuoi darmi tu qualche consiglio? Ci sei riuscita così bene…” risposi insolente, cercando di fargli paura e ritagliandomi la possibilità di andar via in posizione eretta.Mi sembrava di avere davanti un bulldog pronto a saltarmi alla gola, avevo paura a voltarle le spalle, lanciavo veloci occhiate laterali per vedere se arrivava qualcuno, “Te lo puoi tenere” le dissi con l’aria di farle una concessione, mentre mi allontanavo camminando all’indietro come al cospetto di un cardinale.Partì il giorno seguente; lui, vedendomi andar via, guaì come un piccolo cucciolo abbandonato.

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