domenica 25 novembre 2007

Per un attimo

  • In : rivista "Inchiostro" 2004
    Allineo, chiudo, “Premi start” dico. Lui preme e io aspetto… rrrrrrrrrrrrrr fa lo scanner. “Fatto” dice. Riapro, verifico, “Ok, passamene un’altra”. Riallineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr, aspetto… sono ore che lo stiamo facendo. Sul letto c’è n’è ancora un quantitativo impressionante, dentro quelle scatole di latta, quelle dove prima si tenevano i biscotti. Io abbastanza funzionale, ma essenzialmente controvoglia, gli sto facendo un favore e voglio che sia ben chiaro, lui ridotto all’ubbidienza verso di me, forse per la prima volta nella vita. Con la tecnologia ha ancora qualche problema. Col cellulare ad esempio. Lo tiene sempre nel borsello e non lo sente mai. È praticamente inutile che lo porti con sé. Quelle rare volte che risponde poi, anche se legge sul display che sono io, sua figlia, ha sempre un tono serioso, impacciato, come se parlare attraverso quell’aggeggio senza fili gli sembrasse strano, dopotutto. Per questo lo aiuto.Ovviamente ci siamo piuttosto stupiti quando, da un giorno all’altro, quasi a voler fornire la prova della sua buona volontà, si è comprato di tutto: videoregistratore con lettore DVD (con la modifica per leggere i cd dei marocchini), Play Station con gioco di vela per regate immaginarie (ma più che altro per attirare mio fratello e fargli passare più tempo a casa sua), computer pentium 4 con masterizzatore DVD (avendo ormai comprato il videoregistratore/lettore) con annessa stampante Epson a colori e l’altro ieri, per concludere, uno scanner. “Che cazzo se ne farà mai dello scanner” si è chiesto serafico mio fratello quando gliel’ho detto. Ricostruire il passato. Ecco cosa. E io lo sto aiutando. Precisamente quel genere di attività che tanto ama fare una figlia col proprio padre.Ci sono individui che impazziscono per cose di questo tipo, passare su videocassetta tutti i vecchi filmini delle vacanze, sfogliare album con intere generazioni di bambini in grembiule, centinaia e centinaia delle più diverse fasce d’età, tutti coi collettini bianchi e le espressioni buffe, raggruppati in gruppi di venti o trenta, con la maestra seduta davanti o di fianco, quasi sempre con un vestito a fiori e una pettinatura gonfia.Tutto a un tratto si è messo in testa di farlo anche lui. Vuole acquisire sul suo pc nuovo di zecca tutte le foto e le diapositive che ha fatto “Perché tanto ormai chi le vede più le dia… una volta sì, una volta si faceva…”. Intende quand’era giovane. Per un momento me lo immagino seduto al buio sul tappeto del salotto, insieme coi suoi amici. Annamaria con la fila in mezzo e la minigonna, come al solito, Saverio, con ancora i capelli sulla testa, Fulvio con la sempiterna Lucky Strike senza filtro tra le dita (adesso è in Brasile, l’unico che in qualche modo vive da ex sessantottino), la buonanima di Rosaria, poverina, quanto le volevo bene, mi aveva regalato un trenino che suonava i dischi mentre camminava di cui io ero letteralmente terrorizzata; un po’ in disparte mamma, bellissima, che ammicca all’obiettivo della mia fotografia mentale. Tutti insieme a guardare sul muro le immagini dell’ultimo viaggio in Turchia, Iugoslavia, o qualche altro posto che si portava in quegli anni, magari passandosi una canna. Lui era bravo, aveva una Canon nera con teleobiettivo e rullini tassativamente bianco e nero, anche dopo il colore. All’inizio le sviluppava da solo, in un bugigattolo trasformato in camera oscura in cui a stento ci si muoveva. Poi ha smesso di svilupparle, dopo un po’ di farle, alla fine anche di guardarle.Allineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr aspetto… Fatto. Riapro, controllo. Sto scannerizzando il passato dalle dieci di stamattina e davanti agli occhi, senza soluzione di continuità, mi sono passati: il castello mezzo diroccato di Santa Maria, con la spiaggia semivuota come solo negli anni Cinquanta poteva essere; mia nonna con i capelli nerissimi che sembrano pece, tiene in braccio un bambino piccolo, il suo figliolino morto di tubercolosi; il padre di mio padre, che io neanche me lo ricordo ma dalla faccia mi sarebbe piaciuto poterlo sfruttare un po’, come nonno; mio padre, con i pantaloncini alla zuava, magro e nero come una stecca di liquirizia, poi grande, con la divisa del militare e il cappello a bustina; mia madre, una ragazza carina col mento appuntito, con un vestito con le rouches che le aveva fatto mia nonna; una donna berbera col cerchio rosso sulla fronte e un bambino in braccio, avvolto in uno scialle bianco. Non ci sono foto del matrimonio. Mio padre, dopo la separazione, in un impeto di stupida vendetta, le ha strappate tutte. Credo si sia pentito, anche se non ce lo ha mai confessato. Forse è per questo che si fa tutto ‘sto sbattimento, per espiare. O per sicurezza, dovesse capitargli un altro momento no…Lui ogni tanto commenta qualche foto, dice qualcosa, “Ma non è che tutte ‘ste onde fanno male?”. Io lo guardo quando so che non mi sta guardando. Vorrei finire il prima possibile, le dita cominciano a essere grigie per la polvere e alcune foto sono così consumate che bisogna stare attenti ai bordi. Un’emeroteca casalinga con morti e feriti, facce conosciute cambiate col tempo. Sto per raggiungere il limite massimo di condiscendenza e si avvicina anche l’ora di cena, mio padre va in cucina e torna con un bicchierino di limoncello, “Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede. Tra meno di un paio d’ore sarà un po’ malinconico e un po’ ubriaco, metterà su un disco di Bob Dylan o James Brown e riguarderà il risultato del nostro lavoro. Probabilmente sarà felice, per un attimo.“Io tra un po’ vado” dico timida, sperando di non ferirlo.“Ok”, fa sbrigativo “facciamo questa e poi basta”. Mi passa un ultimo cartoncino, una delle poche foto a colori. Siamo io e lui sul balcone della casa vecchia. Io avrò sì e no cinque anni, un pulloverino rosso e un cappello in testa dello stesso colore. Abbiamo le facce tutte pitturate, lui mi aveva disegnato le schiocche rosse col rossetto e le sopracciglia da clown, io gli avevo fatto una serie di segni neri e irrazionali sulla faccia. Guardo la foto e per un attimo penso che forse volevo disegnargli un teschio in faccia, perché assomiglia a quello, poi mi sento in colpa per il pensiero macabro. “Com’ero piccola” dico allineando la foto al contrario sullo scanner. Chiudo, “Premi” dico. Aspetto… rrrrrrrrrrrrrrr, aspetto. Pixel dopo pixel io e lui compariamo sullo schermo. Nascosta dietro le sue spalle mi commuovo e, per un attimo, sono felice.

2 commenti:

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Anonimo ha detto...

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