giovedì 20 settembre 2007

scrivo

Un bel giorno, un uomo con splendidi baffi biondi mi ha detto – Io voglio fare il regista -.
Ha detto subito così, deciso.
Ho pensato che fosse molto affascinante, come se avesse detto astronauta o ballerina, considerando cinicamente la stessa vaga probabilità di riuscita.
Qualche sera dopo, in una scenografia a lume di candela, su un letto con lenzuola rosso-bordò, ha mormorato rapito “Sei bella su questo colore”.
“Cazzo, regista dentro” ho pensato io.
Mi sono resa conto allora che lui faceva sul serio, o quanto meno si comportava come se lo fosse veramente, ci credeva, aveva la direzione giusta, l’atteggiamento adatto.
Io voglio fare il regista.
Io voglio fare.
Io voglio.
Io.
Mi sono vergognata tremendamente.
Io, al contrario, mi nascondo spesso, mi distraggo sempre, mi lascio distogliere, non dico, non sono poi così sicura.
Visualizzo il tempo e il talento sperperati in torrette di smemoranda fitte fitte, come se fosse impossibile ancora prima d’iniziare. Senza coraggio.
Da ragazza era sempre la stessa storia Parli come un libro stracciato, Non metti i soggetti, Non ti seguo più, Ti spieghi una vera merda e io giù a citare Gibran La metà di quello che dico è incomprensibile, ma la dico affinché l’altra metà arrivi pura e cristallina.
Non è cambiato molto da allora. La mia difficoltà è rimasta più o meno la stessa. Non riesco a spiegarmi bene, a decidere in fretta, m’incarto mentre parlo, faccio gravi errori d’ortografia, mi invento le cose, sfuggo le responsabilità, me ne fotto. Sempre stata una bambina di otto anni, dieci forse.
Eppure ci ho provato, a distrarmi dall’idea, per tempi lunghissimi non l’ho considerata neanche una possibilità realistica Ma chi ti credi di essere?
Lo giuro c’ho provato, a sostenere progetti che mi sembravano più interessanti, utili, divertenti, socializzanti, concreti, coerenti. Ci provo sempre, a tenere a bada la mia natura. Lei non è proprio dolce, attenta, accondiscendente come me, è più irresponsabile, egocentrica, pericolosa, ingenua, feroce. Una bambina, che vergogna.
Posso fare la fidanzata, la figlia, la collega, l’altra parte della mela, l’anello mancante, la parte utile, ma voglio prima di tutto scrivere in pace.
Virginia Woolf ha ragione, serve una stanza tutta per se e io pensavo di non poterla avere Non scriverò mai niente che valga la pena di essere letto. Forse non l’ho mai cercata veramente (la vergogna aumenta in maniera esponenziale).
Vado dappertutto e mi sento sempre di passaggio. Che cosa ho che non va? Perché mi ritrovo sempre con le gambe che sprofondano lentamente nelle sabbie mobili di interessantissimi progetti che non sono per me?
Sono miope, ma non porto gli occhiali. Ho sempre letto con luce scarsissima, da sola, quando avrei dovuto/potuto dormire; ed ho sempre scritto dappertutto, anche su treni e aerei, in macchina col mal di mare, per strada. Se non c’è il computer a matita, preferisco, anche se è l’unica scripta che non manent, non importa; lo faccio da sempre, da quando mi ricordo, mangiucchiando, dopo aver scopato, mentre piango.
In 4° elementare scrissi una poesia in rima baciata intitolata La spilla Camomilla. Narrava rocambolesche avventure di una sfortunata spilletta da balia.
La declamai con enfasi alla mia amichetta del cuore, durante l’intervallo, e ridemmo tanto da pisciarci addosso. La cosa ci fece ridere ancora di più, faticammo a smettere.
Per ovviare al problema scappammo in bagno, ci togliemmo le mutandine bagnate e le nascondemmo, chiuse in un sacchetto di plastica, ovviamente nella mia cartella perché ero io la più disordinata.
Rimanemmo in uno stato di felicità totale per l’intera giornata, ridacchiando in continuazione, ripetendoci a memoria i passaggi più buffi e prendendo strilli in testa dalle maestre. Quel giorno eravamo state invitate a pranzo a casa di una nostra amica e dopo mangiato le svelammo il segreto. Lei si scandalizzò così tanto che volle assolutamente prestarcene due delle sue. Quella che mi diede la conservo ancora, come monito Non si può andare in giro senza mutande, non si fa, e basta.
Mio padre una volta ha detto Pensa alla grande, me lo ricordo ancora. Dice cose del tipo Ginger Rogers faceva le stesse cose di Fred Astaire, ma con la gonna e con i tacchi a spillo, quando poi gli ho spiegato che lo stavo facendo e anche per questo mi ero licenziata, ha sfregato pollice ed indice insieme come a dire “e i soldi?”.
Mia madre, invece, è una donna manualmente molto abile, brava a disegnare, lavora la ceramica, crea forme. Dopo che io per anni ho evitato come la peste il suo laboratorio, ho sentito che diceva di me a qualcuno “E’ un’artigiana della testa, non delle mani”, come a giustificarmi, e la cosa non mi è dispiaciuta.
Forse voleva dire che sono una di quelle che magari non te lo dimostra, però magari te lo scrive.
Comunque la prima e unica volta che mi hanno pagato in soldoni una stronzata di articolo mi sono sentita una grande, anche se l’euforia è durata poco, il tempo di consumare i soldi. Però ha fatto capolino un po’ di orgoglio.
Tutto diventa più potente, è come una folgorazione, un cerchio che si chiude.
Quando fomento il mio lato tragico sono una di quelle a cui piace farsi un po’ male, una fancazzista, anche.
Il nodo in gola ogni tanto c’è ancora, ma finalmente posso prendermi per il culo, tirarmela a pazzi, mettere “Scrittrice” nello spazio dove c’è da indicare “Professione” (come se scrivere fosse un lavoro).Ancora fatico un po’ a prendermi sul serio, l’imbarazzo c’è ancora, il disagio non è vinto, ma io scrivo.

1 commento:

  1. Sei molto profonda. Eccitante. Vorrei essere al posto suo per scrutarti da buco della serratura.
    Succederà mai ?

    RispondiElimina