venerdì 5 ottobre 2007

Black out

In: rivista inchiostro 2005

La corrente è saltata proprio all’inizio del secondo tempo.
L’immagine sullo schermo ha tremolato un po’, si è sgranata e poi è sparita del tutto.
Giada ha emesso uno strilletto ridicolo, come se qualcuno avesse aperto la porta del bagno mentre lei era seduta al cesso. Poi, nel buio, hanno gridato tutti.
“Non voglio morire in un attentato” ho pensato, “Non voglio” ho mormorato tra gli strilli. Mi ha preso un attimo di rabbia irrazionale e indistinta contro Bin Laden, Bush, tutta la categoria dei kamikaze, la guerra, la sfottuta società, il mondo intero. “Non me ne importa niente” ho pensato, “Non voglio morire per colpa loro”.
L’aereo ha perso quota, come se una gigantesca mano, Dio? Il Fato? la Sfiga?, ci premesse dall’alto. La pressione mi è scoppiata nelle orecchie come una bolla di sapone, ho digrignato i denti cercando di fare una compressione di resistenza tra naso e gola ed ho avvertito uno strano dolore nella mascella irrigidita. Un leggero ronzio interno ha preso il sopravvento su strilli pianti e imprecazioni generali, avvolgendomi tutta.
Giada era accucciata nel suo posto, sembrava piccola e indifesa e per lo meno non gridava presa dal panico come tutti gli altri. Piangeva in silenzio. Ho apprezzato la dignità del suo terrore stranamente taciturno, come il mio.
“E’ la fine” mi sono detta.
A un certo punto le ho preso la mano e gliel’ho stretta. Mi sono stupita di me stessa, se non fossi stata in questa situazione niente e nessuno mi avrebbe convinto a fare una cosa del genere. E’ la classica buona azione che non farei mai, prendere la mano di un’estranea per darle conforto. Mi è sembrato un gesto falso e meschino, ma l’ho fatto lo stesso, provando una specie di ribrezzo per me stessa, come se avessi avallato un sentimento puerile, una reazione stupida. Lo facevo più per lei che per me e questo, anche se non volevo, ci avrebbe legato per sempre, “Che importa”, ho pensato “sto morendo”.

L’oscuro presagio provato all’imbarco non era stata una semplice paranoia della mia mente. Se l’uomo fosse stato progettato per volare avrei avuto un paio d’alette trasparenti dietro la schiena avevo pensato mentre salivo la scala del gigantesco mostro. Mi sosterrete fin lì? domandavo guardando gli alettoni intensamente, scalino dopo scalino.
Il comandante, all’entrata, mi ha sorriso incoraggiante e sicuro ed io ho ricambiato con una smorfia.
Il posto era vicino al finestrino. Avrei preferito corridoio, per non dover guardare fuori.
Dal momento che quello accanto a me era vuoto ho chiesto a una hostess se potevo cambiare, “Mi scusi” ho detto alla prima che mi è passata vicino, indicando la poltrona vuota, “Posso sedermi qui?”.
Mi ha guardato come se non capisse.
Vergognandomi un po’ ho cercato di spiegare “…è che…non vorrei stare vicino al finestrino”. Lo so che è ridicolo, ma ci ho provato lo stesso.
“Questo è prenotato” fa lei con un’aria divertita. Gli avrei voluto togliere quello stupido sorriso a furia di schiaffi, fino ad arrossargli la faccia pallida, da nordica che non vede il sole da anni, e quando lo incontra diventa del colore dei maialini da latte.
“Doveva chiederlo quando ha fatto il biglietto” infierisce lei.
Mi sono stretta la cintura fin quasi a non respirare, prima ancora che lo dicesse la voce. Poi l’ho allentata un po’ perché mi bucava la pancia borbottante.
Una donna piccolina, di mezza età, con un tailleur color malva, è arrivata tutta trafelata. Io ho tolto il cappotto che avevo poggiato al suo posto. Lei mi ha ringraziato, ha aggiunto “Scusami” come se fosse colpa sua.
Due assistenti di volo hanno cominciato a fare quelle mosse ridicole per indicare l’uscita di sicurezza, la posizione dei giubbotti, l’uso delle mascherine.
Davanti agli occhi mi è arrivata la fotografia di corpi spappolati tra i rottami, una scarpa abbandonata per terra, vestiti bruciacchiati, come ogni disastro aereo che si rispetti, “Smettila” mi sono detta.
Dietro una tendina, infondo, qualcuno apriva e chiudeva sportelli per rifornire il carrello di succhi the caffè.
“Va in vacanza?” mi ha domandato la vicina interrompendo le mie macabre visioni, mentre si sistemava nella poltroncina stretta dei voli economici.
Non avevo voglia di rispondere e ho solo annuito col capo.
“Io invece vado a trovare mio figlio” mi ha informato ciarliera, “Vive lì per lavoro, ha avuto un bambino”, era contenta, si vedeva.
“Ah si?” ho detto con aria distratta, desiderando ardentemente che stesse zitta.
“Si si” ha continuato lei entusiasta “In realtà una bimba, si chiama Giada, come me!” ha specificato orgogliosa. Aveva una voce sottile e squillante, come il riflesso del sole sulla carlinga.
Io, il mio nome, non gliel’ho detto. La signora Giada voleva parlare e a meno che non le avessi espressamente chiesto di star zitta, a rischio di sembrare maleducata, me la sarei dovuta sorbire per tutto il viaggio, quindi ho pensato di non darle corda. Ho pensato “Non diventerò mai così” e un attimo dopo “Così come?”.
“Sei sola?” ha chiesto lei incuriosita e materna.
“Mi aspettano” ho mormorato laconica. Il mio ragazzo era lì per lavoro, in un villaggio turistico, ma non avevo voglia di stare a dirlo a una perfetta sconosciuta.
La voce del comandante ci ha avvertito che non c’erano perturbazioni sulla nostra tratta e ci ha augurato un buon volo.
Quando è iniziato il film ho fatto finta di volerlo guardare, sperando che questo bastasse a farle capire che non avevo voglia di chiacchiere di circostanza.
Poi è cominciato l’incubo.
Giada, quando le ho preso la mano, mi ha guardato ed io ho pensato alla sua nipotina, l’ho immaginata bionda come lei, con un espressione furbetta, bellissima.
L’idea di avere un bambino non mi aveva mai sfiorato la mente, invece lei aveva addirittura una nipotina, anche se non l’avrebbe mai vista.
Poi, vai a spiegare perché, nel panico generale ho pensato a Luca, il fidanzatino che avevo al liceo, “Che fine avrà fatto” mi sono domandata, ricordandomi quanto mi piaceva. Ho capito in quel momento che non ci volevo andare, in Egitto, i villaggi vacanza mi fanno schifo. Invece avrei voluto cercare Luca, dirgli quanto mi era piaciuto, sapere come stava adesso. Non mi ricordavo nemmeno il motivo per cui la nostra amicizia era finita. Ho immaginato il mio ragazzo che aspettava in un aeroporto egiziano un aereo che non sarebbe atterrato e mi è stato chiaro, come una folgorazione “Non voglio stare con lui. basta”.

Un attimo dopo l’aereo ha ripreso quota, le luci si sono riaccese, il film è ripartito come se qualcuno avesse tolto la pausa. Come se niente fosse.
Non so quanto è durato, tre secondi, dieci forse. Il tempo era una spugna gigante che continuava a trattenere i minuti.
Poi la voce del comandante disse attraverso i microfoni di stare tranquilli. Avevamo incontrato una perturbazione che probabilmente sarebbe aumentata, quindi avrebbe cominciato un inversione di rotta per tornare indietro. Il volo sarebbe stato posticipato.
Ho guardato le nostre mani intrecciate “Comunque io mi chiamo Simona” ho detto alla signora Giada, sorridendo.



(“Inchiostro”, Feb/Apr 2004)

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