martedì 25 settembre 2007

Gli occhi più azzurri

Napoli, 1947.
I binari di piazza Garibaldi sono ricoperti di macerie, le rotaie distrutte dai bombardamenti, i detriti accumulati negli angoli a formare colline compatte e aride. Dopo la fine della guerra solo una parte della ferrovia è stata ripristinata, e due binari funzionanti assicurano alcune corse al giorno.

E’ ancora buio, ma la stazione è già piena di gente.
Il convoglio che deve partire ha un carico piuttosto singolare: centinaia di bambini, scugnizzi per lo più, maschi e femmine dai sei ai dodici anni.
Paola è una di loro e di anni ne ha quasi sette, però ne dimostra di meno, tutta imbacuccata com’è nel cappotto troppo grande che le hanno dato le donne del Comitato. Si stropiccia gli occhi chiarissimi con le manine sporche lasciandosi due strisce nere sulla faccia smunta. “Tengo freddo ma’” dice per l’ennesima volta, tirando la gonna della madre che alza gli occhi al cielo, ma poi se la carica in braccio, coprendola col suo scialle. A lei il freddo si è depositato così infondo alle ossa che quasi non lo sente più. Si sistema la bimba al collo trattenendo una smorfia di dolore. I piedi, i piedi sono una piaga, a ogni passo sembra che decine di spilli si ficchino sotto le piante; “Fa’ la brava a mammà, su’” dice cercando di consolarla, “mo ti portano a Modena, ti danno il latte, il pane…”, continua cantilenante. Paola quella storia la sa a memoria, la mamma gliela ripete da un mese come fosse una favola.
Sprofonda la testa nello scialle, cerca quell’ odore familiare che sua madre ha sul collo, all’attaccatura dei capelli, un misto di canfora e limone che usa per sciacquarsi i capelli al posto del sapone che non c’è mai.
Michele cammina accanto a loro tutto intrizzito e silenzioso. I capelli rapati a zero per colpa dei pidocchi stanno ricrescendo come vellutino. Paola lo guarda. A vederlo ora, tutto spelacchiato, le dispiace di averlo preso in giro nei giorni scorsi. Lui continua a tirare su col naso, ma il muco ormai ha formato una scrosta cristallizzata attorno alla bocca. Si pulisce con un vecchio fazzoletto che tiene nella manica del cappotto, ma la crosta si riforma sempre.
Gaetano, un giovane uomo magro magro, con buffi occhialetti da intellettuale, comincia a fare l’appello: “…Capuano Mario”, si fa avanti un bimbo con lo sguardo basso “Di qua” dice l’uomo, spingendolo verso il primo vagone, “…Casolaro Rosa” continua con voce stentorea. Uno dopo l’altro sono divisi in modo che ad ogni gruppo corrisponda un vagone.
La radio nella cabina comandi, sintonizzata sul bollettino meteorologico, continua a prevedere mal tempo.
Paola si mette in coda con gli altri tenendo per mano Michele, che si gira in continuazione a guardare la madre. Ben presto sono tutti dentro, sistemati sui sedili di legno.
Il treno è quasi pronto a partire quando, da un vagone all’altro, si sente la stesso richiamo “e cappott!” e in men che non si dica tutti i bambini si tolgono il cappotto con la targhetta di riconoscimento faticosamente cucita dalle crocerossine su ogni capo, e lo lancia dai finestrini agli altri che rimangono, ai quali serve di più. Sono così veloci che la stazione si svuota in un attimo e non c’è più modo di recuperare le giacche. Sul treno hai voglia a chiedere i nomi vagone per vagone a tutti i bambini. Nessuno risponde! “Come ti chiami?” chiedono le donne del Comitato, ma i bimbi girano la faccia. Poi però portano il pane e le lingue cominciano a sciogliersi. “Io mi chiamo Giuseppe, Giuseppe Russo”, “Io Maria di Girolamo… c’ho così anni” dice un'altra aprendo la manina con le cinque dita allargate. Quando viene il suo turno, Paola dice il nome con un filo di voce che nessuno sente e Michele è costretto a ripeterlo lui. “Che begli occhi” dice la sorvegliante alzandole il mento con un dito, “più azzurri del cielo”. Paola abbassa con forza la faccia, perché è quello che le dice sempre sua madre.
Ci vogliono ore prima che, liste alla mano, riescano ad identificarli tutti ed a ricucire altre targhette numerate, stavolta direttamente sui vestiti. Quelli che proprio non vogliono parlare sono convinti con un trucco: “Antò’” gridano loro passando per i vagoni fino a che uno non si gira istintivamente sentendosi chiamare, “Allora si ttu Antonio!” e lo acchiappano al volo per cucirgli la targhetta. Gli ultimi due, un maschio e una femmina, sono identificati per esclusione. “Perché non ci volevi dire che ti chiamavi Ciro?” chiede una donna del comitato al bambino scontroso che non spiccicava una parola, “sei muto forse?”. Il ragazzino la guarda duro, “Aveva essere fesso a ddicere o nomme mio” risponde quello prima di richiudersi nel suo mutismo.
Finalmente il treno si muove e tutti si stringono l’un l’altro per farsi calore, mentre le donne passano tra i vagoni per portare coperte e parole di conforto.
Non piange nessuno, qualche bimbo al massimo si lamenta nel sonno.
Paola guarda il fratellino che tira su col naso, sonnacchioso. La mamma si è raccomandata di badare a lui finché resteranno insieme e lei combatte contro il sonno fino a che Michele, cullato dal dondolio del treno, non crolla tutto arrotolato come un gattino. Solo allora Paola chiude gli occhi e s’addormenta.

Si svegliarono a Reggio Emilia.

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