lunedì 26 ottobre 2020

Breve racconto di una laparoscopia

Prima dell'operazione non sapevo se sarebbe rimasto in laparoscopia (tecnica meno invasiva in cui fanno dei buchetti nella pancia (a me 4), uno sopra l'ombelico da cui entra una micro videocamera; uno dal lato da cui aspirano, tagliano, operano, tolgono pezzetti di carne, mettono punti; l'altro dal lato opposto, da cui drenano con un tubo il liquido che, insieme all'aria, immettono nella pancia per lavare e separare organi e tessuti interni mentre lavorano, e vabbè un po di sangue, che quello scorre lì dentro) o se avrebbe dovuto tagliare proprio la pancia, togliere tutto. Il proff. mi aveva avvertito, settimane fa, io per tutto il tempo ho sperato sempre nella prima opzione, ma ero preparata anche alla seconda.

Non mi sono resa conto di essere arrivata in sala operatoria fino a che non hanno iniziato le manovre per l'epidurale. Dalla camera dove sono stata prima e dopo, ci sono arrivata a piedi in sala operatoria, niente sedie niente barelle, con uno degli assistenti giovani che mi era venuto a prendere; pensavo, speravo, fosse qualche altra pre-analisi (anche se era una chiara rimozione, insomma, mi (ri)preparavo da giorni tra purghe e digiuno e sapevo che la mattina sarei stata la prima). Mi sono messa io il camice verde di carta addosso (stavolta dritto, cioè storto), raccolto i capelli nella cuffietta, ma non avevo davvero capito che ero già li, finché sott' occhio non ho visto da un lato tutti quei monitor e apparecchiature e mi sono resa conto che c'erano delle luci al neon fortissime, troppo, che sparavano dal soffitto. Uh cazzo ci siamo, mi sono detta. Poi è diventato tutto improvvisamente veloce, mi hanno fatto sedere su quella che in qualche secondo ho capito che sarebbe diventato il mio "tavolo operatorio" e, da seduta, mentre mi spiegavano in che posizione stare - metti le braccia tra le gambe, piegati un po' in avanti, stai rilassata - e io dicevo - scusate, sono un po' emotiva - ma in realtà ero più frastornata dall'aver capito che c'eravamo, pronti, partenza... mentre mi pungono la schiena in basso una voce (l'anestesista) dà indicazioni brusche sulla posizione - dell'ago penso io - e una donna esegue, risponde "come storto? così?", io penso ma vedi a questa che impara addosso a me, ma sento solo una strana pressione, e infondo andiamo Simo, sei agofobica è vero, ma poi stai piena di tatuaggetti, essú, e mentre io appunto biascico tragica "ho un tatuaggio sulla pancia se dovete tagliare, tagliate, è il primo, è tutto sbiadito..." la voce dice "senti il caldo nelle gambe?" e io "no", "come no?", "...ah...si...comincia, la destra". Intanto intorno ti si muovono varie persone indaffarate, almeno quattro, cinque, che ti fanno cose (un dito in una pinzetta, prove di pressione), ed alla fine, per ultimo, tipo rock star, entra lui, il chirurgo (ho visto dei top back stage e vi assicuro che il paragone è calzante). Sotto la mascherina la cuffia e il camice io non lo avevo riconosciuto, ma mi saluta guardandomi un secondo negli occhi, e chiamandomi per nome "... 'giorno Simona", e allora ho ricordato lo sguardo verde cupo che mi aveva colpito quando lo avevo incontrato alla prima e unica visita fatta con lui, e ho detto, o forse ho pensato, stupita, quasi felice "uh eccolo!" mentre mi tocco la gamba e penso che mi avrebbero potuto prendere a forchettate nelle cosce e non avrei sentito nulla. Me le hanno alzate sulle sbarre tipo visita ginecologica perché ho detto che non potevo più muoverle io, che sensazione strana, e poi mi hanno attaccato delle cose gommose al petto, strappato in due il camice verde, stesa, e una voce ha detto fai un bel respiro, mentre mi mettono una mascherina che caccia fumo bianco e fresco sulla faccia.


Mi sono risvegliata dopo quelli che sembrano essere pochi secondi, ma in realtà sono circa tre ore, con la voce che mi chiamava da lontano "Simó come và?" e io "bene tutt'apposto", "ah vedi mi senti pure da qua brava". Il botta e risposta con l'anestesista mi ha fatto svegliare del tutto, completamente e in un secondo, no dolore ma consapevole: sono stesa, fuori il corridoio delle sale operatorie, con i medici che continuano con la successiva (la mia compagna di stanza, una ragazza più giovane di me, alla 4 recidiva, che mi ha aiutata un sacco, lei a me, una forza della natura in uno scricciolo di femmina ❤️), le luci fortissime e l'istantanea percezione di aver tutto in un secondo presente quello che è successo. Non ho mai sento davvero dolore (sono attaccata ad uno stupefacente palloncino trasparente dentro una teca di vetro di toradol e morfina che durerà tutta la giornata e tutta la notte, man mano lo vedi che si sgonfia), ma "sento" i buchi nella pancia gli aghi nelle vene le gambe ancora formicolanti, anzi non "lo sento", lo so, me ne rendo conto, e quindi comincio a respirare un po' veloce, iperventilazione, no simo, il panico ora no, l'anestesista si accorge subito e viene vicino a me, si fa vedere, mi dice  Simò tranquilla… respira piano… hai fatto… tutto apposto… e io eseguo. Ogni tanto lui ripassava a controllare, a un certo punto ho chiesto "mia madre?" E lui ha detto sta fuori, come si chiama, glielo dico che sei sveglia. Sono stata circa due ore, forse di più, parcheggiata fuori alla sala operatoria sotto controllo, mentre mi svegliavo. Poi mi hanno riportata in barella in camera, ho visto mia madre e ho pensato 'grazie' , e poi 'bravissima' , aveva la faccia preoccupata e le ho detto sto bene, ed era vero. Mi hanno spostato dalla barella al letto e ti ritrovi per 24/36 ore circa (se tutto va bene, ed è andato tutto bene) stesa immobile con due aghi nelle braccia un tubo nella fica e uno che esce dalla pancia e drena i liquidi, con gli infermieri che ogni tot vengono e ti iniettano cose bucano mani braccia, fattissima e tranquilla, nulla importa oltre al fatto che é passata, andata. Un po' di dolore al petto per il washing peritoneale.

Dopo la carne e il sangue, l'attesa che chiude il cerchio è, ovviamente, la merda, siamo fatti pure di questo: la "canalizzazione", cioè il passaggio dell'aria (perché la cacca in realtà ce ne vuole un po di giorni, diciamo una settimana) da dentro a fuori attraverso l'intestino, diventa fondamentale (la mia amica pediatra giustamente mi ha detto "pensa le feste quando i bimbi fanno la prima cacchina!"). Solo dopo sta cosa ricominci a riprendere pian piano l'uso autonomo degli organi del ventre, ti staccano l'idratazione artificiale, ricominci pian piano a mangiare quello schifo delle mense degli ospedali pubblici, dopo 48 a bere, a succhiare caramelline alla stevia che sanno di paradiso, ti staccano il catetere e ti alzi piano piano, rotolando, attenta ai fili, per andare in bagno trascinando sta sacca di liquido che hai attaccata alla pancia con un tubicino, io ci ho anche preso il caffè alle macchinette e fumato mezza sigaretta 😈) e poi quando smetti di spurgare per bene (diciamo 3-4 giorni) tolgono anche sto tubicino (ho riempito di complimenti l'infermiere che lo ha fatto, poco dopo averlo trattato malissimo perché aveva detto te lo tolgo e domani ti dimetteranno, e io COME DOMANI OGGI, PARLO COL PROF! STO BENE ME NE VADO, non posso firmare io qualcosa…) e il tubino a farfallina che hai nel braccio per 4-5 giorni da cui ti iniettano i medicinali.

In tutto questo sul piano nascevano bambini - almeno una decina in due tre giorni, vari gemelli, e una notte di trambusto (la seconda dopo l'operazione) per un sospetto caso di covid. Nessun parente o amico può entrare (la prima notte mia madre, con sierologico) quando mi hanno dimessa (visita, emocroma stacca cerotti, togli aghi, foglio delle cure) ho chiamato casa "lo so che piove a dirotto, ma mi venite a prendere?" e quasi piangevo di gioia. Mi sono fatta la valigia con le mie cose da sola, lo zainetto, mi sono messa gli occhiali da sole anche se fuori pioveva ancora e salutando gli infermieri, ringraziando le dottoresse, me ne sono uscita così, tirandomi il trolley. Come se stessi andando a imbarcarmi per delle meravigliose vacanze 


P. S. 

Fate prevenzione, andate nei consultori, non sottovalutate gli sbalzi del ciclo, i dolori strani, io mi sono accorta di avere sto robo per i controlli che faccio al consultorio pubblico ogni tot, pensavo fosse colite, congestioni, invece era una pallotta molla trilobata di quasi 12 cm cresciuta in meno di un anno che tra un paio di settimane saprò bene di cosa precisamente era fatta. 






lunedì 14 giugno 2010

PAMPHLET CONTRO LA MODA

E' ormai un anno, forse di più, che non compro vestiti. Ma neanche al mercato, ma neanche in un promod-ovviesse-rinascente-benetton. Ma neanche coi saldi. Per una donna è un buon record. Non l'ho deciso consapevolmente, è successo e basta. Sempre meno sempre meno, più nulla. Ho un paio di amiche, zie, cugine che mi passano le cose, come quando si era bambini. Certo ho perso un po il mio stile, se mi guardo allo specchio il più delle volte mi dico “ma che ti sei messa addosso?”, però poi parlo, e tutto torna. Lo stile è li.

La maggior parte della gente è convinta che la moda sia qualcosa di fondamentale; la verità è che le creazioni degli stilisti, sui loro begli ometti, sono nient’altro che abiti. Stoffa cucita insieme. Anzi, quelli di marca, da sera, appena li togli dalla stampella, diventano inconsistenti straccetti, li prendi tra le mani e non capisci più qual'è il sopra e qual'è il sotto, il davanti o il dietro; e poi, inutile dire, sono cari, oltre ogni ragione. Giustificherei più facilmente il prezzo se gli abiti fossero realmente frutto di creatività superiori, opere d'arte, ma quelli che finiscono in vetrina sono ciò che resta dopo le bieche previsioni di vendita e il pollice in su delle più famose boutique sparse qua e là per il bel mondo. Quelli che sfilano, mica li vedi, nei negozi.
L’evanescenza e lo scintillio, che genera invidie e stimola desideri, è così sbrilluccicoso che impedisce la vista.
Intanto orde di creativi in erba, potenzialmente innovativi, faticano a trovare stages non retribuiti.
Molti dei capi realizzati nella pre-produzione, quelli che fans e clienti vedranno sfilare, sono annullati perché non si venderanno mai. Solo quelli che hanno un mercato sicuro, quelli in pratica già venduti, sono mandati in produzione, e non importa quanto difficile e costoso sia realizzarli o se bisogna scuoiare ignare foche dei mari del nord per il collo e i polsi.
Quando lavoravo a Milano mi sono infiltrata a qualche defilè ed ho lavorato in un famoso atelier, di cui non farò il famosissimo nome, tanto uno vale l'altro. Zona Brera. Una quantità di spazio in affitto nel quadrilatero d’oro della città, a cifre esorbitanti per centimetro quadro. Niente, nonostante il pauroso giro di soldi e l’apparenza, che storicamente inganna, non riesco a considerarla una “cosa seria”. Questa macchina stagionale ed eterna che macina centinaia di assunti a tempo determinato per alimentare analisi di mercato e di “stili di vita” vuole imporre a me, imporre dico, qualcosa che dovrebbe essere libera espressione dell’individuo. Qualcosa che fa la sua porca figura solo quando scivola via a terra e ti lascia nuda come mamma t'ha fatto.
Chiariamoci, i vestiti mi piacciono e sono anche abbastanza vanitosa. Ma se adesso faccio fatico a trovare stivali neri semplici, no bucati, no frange, no con kilometri di finta nappa attorno, perdonatemi, ma andrò scalza.
I fashion victim, li sentite quando parlano? È tutto un “Caaraa beeella” strascicato con tono mellifluo e ascendente che sturba immediatamente le terminazioni nervose. Una profusione di teorie sulla moda che “...in se non ha più niente da dire” e sulla “donna che deve re-inventarsi quotidianamente, essere allusiva, concreta, vitale” e via con sequele di aggettivi infilati a caso, senza senso, uno dietro l’altro. Chi sa perché gli stilisti si lamentano dell’omologazione, ma continuano a produrre in serie. Imitarli, per alcuni, è l’unico modo per sopravvivergli.
Mi ricordo che da bambina avevo un incredibile passione per le Barbie e facevo abiti fatti da me, riciclando pezzi di stoffa e riadattandoli per la biondina coscia lunga. Stare nel backstage di una sfilata è come cadere nel cestone delle barbie. Bellezze in (poca) carne ed (evidenti) ossa, sempre livide di freddo, spogliate e rivestite in continuazione, fino a che la pelle non è arrossata dalle stoffe rigide, lampo e ciappette metalliche, clips e miriadi di bottoncini di vestiti che indossano centinaia di volte, ma che non saranno mai loro. La taglia è più o meno standard: “40” da collezione si chiama. Praticamente una 38, quasi 36, misure da bambina.
Le ho viste tante volte scherzare nei camerini, con l’accappatoio e le ciabatte ai piedi, come in un qualsiasi spogliatoio di una palestra. Nei sogni di uomini e donne diventano oscuri oggetti del desiderio, corpi da emulare; per le agenzie sono manichini viventi, e loro lo sanno.
Attorno bazzicano pessimi personaggi, qualcuno lavora, molti sembra che non facciano assolutamente nulla, altri si lamentano addirittura di essere tra bambole e champagne, anche se si vede lontano un miglio che l’orgoglio gli fuoriesce da ogni poro della pelle.
Quelli dell’amministrazione pensano solo “La sfilata è andata, migliaia di euro per una manciata di secondi, ma tutti ne stanno scrivendo”. Quelli dell’ufficio stampa hanno l’aria stanca e le borse sotto gli occhi per le nottate insonni passate a decidere chi far sedere dove e vicino a chi. Ma la cosa più importante è piazzare la collezione sul mercato, strizzare la gallina dalle uova d’oro. La campagna vendite! E’ il momento delle eleganti donne in tailleur divisa, gentilmente offerto dallo stilista mandatario, che le sguinzaglia all’impazzata. Sono loro, le “venditrici”, agguerritissime ed agitate arpie, mani in pasta di un uomo che, nel suo stesso tempio, concede udienza davvero raramente. Non fatevi abbindolare dalla loro aria blasée, sono commesse d’alto bordo. Man mano che aumentano gli appuntamenti con i clienti, calibreranno simpatie ed antipatie sulla base di incomprensibili equilibri. Niente per niente, tanto ci sono modelle e stagiste, per sfogare frustrazioni e vecchiaia che avanza. L’importante è il fatturato, il resto della macchina va avanti da sé.
Runner e facchini, nascosti agli sguardi dei clienti, continuano a sgobbare come pazzi, fieri delle loro belle magliettine made in Taiwan con su la “firma” dello stilista. Le sartine seguitano a cucire nei sotterranei. Gli abiti-prototipo, la “collezione” insomma, è rammendata continuamente, il che mi fa nascere interrogativi sulla qualità della merce in questione. Per controllare un bottone o riattaccare un’etichetta ad un abito le povere donne devono chiedere a qualche hostess di andare a prenderglielo, perché non si possono avvicinare agli abiti in esposizione, quasi fosse lo Spirito Santo ad averli cuciti, e non loro.
Dopo questo mese lo show-room tornerà ad essere un megaguardaroba per starlette della TV, che andranno di persona, o manderanno costumiste e “consulenti d’immagine”, a scegliere mise da indossare in trasmissione.
Per adesso è quello che è, una fucina di soldi e chiacchiere, con la competizione, negli appositi salottini, spinta ai massimi livelli.
I clienti sono da convincere e conquistare a tutti i costi, anche se spesso incompetenti e decisamente grossolani. Infondo cosa ci si aspetta dai commercianti? Se ne può parlar male solo quando non ti vedono.
“Caffè?”
“..caffè…”
“pasticcini?”
“..pasticcini…”, una profusione di sdolcinatezze; ma la linea che separa la cortese ospitalità dal servilismo ipocrita quì è scomparsa.
Ovviamente di soldi neanche l’ombra; euro, sterlina, yen o dollaro che sia, il denaro non si vede. Quando si fa “l’ordine” si arriva determinati al budget senza batter ciglio.
I soldi sono volgari, eppure sono qui per questo. Uno solo di questi semplicissimi pantaloni cammello non costa meno di duemila euro. Prezzo che sarà ricaricato per lo meno del 300%.
Cominciano ad arrivare arabi e giapponesi. Sono loro quelli che spendono le cifre più alte per portare il “Made in Italy” all’estero. Accontentiamoci, grazie a loro l’Italian style è famoso nel mondo.
Allestimenti mastodontici, colonne greche in cartongesso, ori e velluti a profusione, musica in sottofondo (gli stessi due pezzi colonna sonora della sfilata, mandati a ripetizione tutto il giorno, tutti i giorni).
Silenziosi e solerti camerieri si nascondono dietro le tende pesanti.
L’atmosfera è lussuosa ed ovattata, con le pareti tappezzate di abiti e scarpe, borse e occhiali, accessori multiuso tutti della stessa gamma di colori.
Nessuno si vestirebbe mai così, mi dico speranzosa, ma più mi guardo in giro più mi accorgo di sbagliare.
E se quest'anno si porta nero, grigio topo da giorno, grigio merda da sera scordati un vestito colorato.
E le luci, avete presente? le luci sono ovunque, sparatissime, 24oresu24. Riscaldano come tanti piccoli phon creando un ecosistema malsano e finto, come i sorrisi e gli occhi di tutti quelli che incontri, sparati e lucidissimi. Attraversano i corridoi moquettati a testa bassa, con aria fintamente affaccendata, vestiti di lucido nero impeccabile, seguite dal loro codazzo di assistenti, anch’esso rigorosamente in black con quell’aria sempre un po’ corrucciata, di chi si prende troppo su serio, sembrano irrequieti branchi di Labrador.
Anche io mi vesto di nero a volte, ma il mio è ombroso e macchiato di fumo.
In questi ambienti, se non dimostri qualcosa, qualsiasi essa sia, nessuno ti trova interessante.
Sei un copy? Un sound designer? Una stylist? Sai parlare l’inglese, usare il computer? Guadagni bene? Hai abbastanza contatti? Sei creativo, hai capacità di problem solving? Sei maturato in questi anni? Fatto esperienze all’estero?…
Mi sono chiesta se ne valesse la pena. Non mi piace l’ipocrisia e non m’interessa far finta, e so che il mio animo irrequieto non si calmerà grazie ad un vestito in più.
C'è più gusto a boicottarla, la moda, che a seguirla.

mercoledì 22 luglio 2009

mi metti lo smalto?


mi metti lo smalto?, inserito originariamente da La Simi.

favori estivi tra amiche...

giovedì 9 luglio 2009

E.T., il precariato e quella mia felpetta rosa

Dedicated to Manù


Anche se la mia memoria è davvero scarsa, e tu lo sai, ricordo perfettamente le due bimbette che eravamo entrare al Cinema Vittoria, quello sotto casa mia. Ricordo tuo padre esibire una delle sue innumerevoli tessere che lo facevano accedere gratis ovunque, addirittura forse un tesserino siae, che chi sa chi gli aveva procurato. Era il 1983 e noi avevamo circa sette, otto anni. Era quasi Natale ed eravamo tutte imabuccate con sciarpe e cappelli. Poi il buio della sala, e la magia del cinema.

Sono passati 26 anni, ho avuto più volte a che fare con la siae. Oggi, per esempio, è il penultimo giorno al Trevi, mancano due statini e si chiude, facevo il calcolo dei giorni mancanti così, contando gli statini. È stato il “contratto a progetto” più interessante degli ultimi tempi (maledetto precariato!), dopo set e turneè il più bel lavoro fatto in assoluto, in tutti i sensi. Unico nella storia del mio jumpworking che mi dispiace un po’ lasciare…lavorare in un cinema, d’essey, un posto “che fa cultura” come si dice adesso, non è affatto male ma, come tutte le cose belle, non può durare troppo a lungo, sennò si guasta. Io sono precaria, e sono precaria dentro.

Quando le luci si accessero, alla fine del film, io ero senza parole. All’uscita tu volevi chiacchierare, ma io avevo un nodo in gola che non mi spiegavo e non riuscivo a dire niente, “bello eh?” chiedevi. Sei sempre stata brava a razionalizzare, amica mia, invece io non riesco a reagire subito e, ancora adesso, se sono molto molto felice, molto molto emmozionata, molto molto triste, mi viene da piangere. Io volevo solo andare a casa e ripensare a quella specie di mostriciattolo con gli occhi azzurri, enormi, brutto tanto che se lo avessi incontrato avrei avuto paura. E la paura era quello che volevo. Pensavo a come sarebbe stato avere un segreto così. Pensavo alle separazioni. E volevo restare bambina per sempre. Quel film l’ho rivisto tante volte, gli volevo così bene, ad E.T., perché lui esisteva lassù, ed era mio amico, e lo adoravo così tanto che mia madre mi comprò una felpetta rosa confetto, con l’extraterrestre gommato sopra, bellissim. E avevo anche un pupazzo, col dito che si illuminava, le pieghette molli e tutto. Non so dove siano finiti.

Parecchi anni dopo, ero a Milano in un supermercato con un allora appena conosciuta coinquilina, e come regalo di compleanno per un suo amico comprammo una videocassetta del film con contenuti speciali e pupazzetto incorporato a 9.90. Poi io mi ci fidanzai, col suo amico, e il pupazzetto si è trasferito con noi.

Ma visto che, anche di questi cinici tempi umani, tutto torna, come regalo ultimo, ciliegina sulla torta di fine lavoro, mi è capitato di conoscere l’uomo che se lo è inventato, quell’orribile mostrino che tanto ho amato, che ha popolato i miei pensieri di storie e fantasie da bambina. Quindi, anche se di solito, come dice qualcuno “francamente me ne infischio”, stavolta ho chiesto un autografo, per il mio amico E.T., e l’ho fatto firmare dall’autore, sulla panza, con un pennarello nero medio, raccontandogli la storia della felpa rosa. E’ un vecchiettino piccolo, magro, alle prese con sto pupazzetto grigiastro, sorrideva divertito. E.T. è contento, e anche io. E ho pensato alle amicizie che durano nel tempo. Queste si che sono soddisfazioni nella vita…

martedì 14 aprile 2009

Scatole di francobolli

Mio nonno collezionava francobolli.
Quando ero piccola, una volta all’anno, riempivamo con l’acqua tiepida il lavandino marrone scuro di casa sua e li mettevamo tutti a bagno, per togliergli la polvere e la puzza di naftalina che nonno metteva nelle scatole dove li conservava, quelle di latta che si usavano una volta per i biscotti.
Io rimanevo incantata a guardare quei minuscoli e delicatissimi quadratini di carta che galleggiavano leggeri e si attaccavano ai bordi lisci della ceramica. Al minimo movimento c’era il rischio che si sovrapponessero uno all’altro, ed era difficile poi separarli da bagnati senza farli rompere. Io avevo il compito di evitare che questo succedesse e li controllavo con attenzione, dividendoli con le dita grassocce appena loro minacciavano di avvicinarsi.

Poi è morto, nel giro di pochi giorni, e io non sono entrata nella sua stanza. Ho solo sbirciato e ho visto un angolo di letto ricoperto di rose rosse. Qualcuno le aveva sparse alla rinfusa, mia nonna forse, e mi piacque pensare che mio nonno era tutto ricoperto di fiori.

Una vicina di casa aveva portato due guantiere giganti cariche di cornetti appena sfornati e ricoperti di impalpabile zucchero a velo, una alla crema e una alla marmellata, come se stessimo festeggiando l’arrivo della primavera.
Nel salotto le mie zie parlavano sommessamente con mia nonna che cincischiava tra le mani un fazzoletto umido di lacrime. Non si capacitava. Loro due, da giovani, avevano fatto la fujtina, si erano sposati alla chetichella. Era tempo di guerra e queste cose succedevano. Appena l’anno prima avevano festeggiato le nozze d’oro.

Ripenso a quello che lui mi augurava ad ogni compleanno o ricorrenza “Tutto quello che il tuo cuore desidera”. Questo auspicio mi ha accompagnato fin da bambina. Quello che il mio cuore desidera...
Come se fosse facile saperlo, nonno.

Sul divano c’era mia madre, ma io non volevo avvicinarmi. Se lo avessi fatto avrei dovuto confortarla e lei avrebbe pianto, e lo avrei fatto anch’io perché non sopporto di vederla piangere. Una zia mi ha sospinto leggermente verso di lei, come a dire stalle vicino.
Io mi sono avvicinata strisciando i piedi, con gli occhi bassi. Mi sono seduta accanto a lei e mamma mi ha abbracciato. E’ scoppiata a piangere immediatamente, come se non aspettasse altro che me, per aprire il rubinetto. Io mi sforzavo di tenere dentro le lacrime davanti a tutta quella gente.
Mi ha raccontato che era vicino a lui, quando ha esalato l’ultimo respiro, ha detto che non era proprio un respiro, “Più un soffio” ha detto, “uno sbuffo, come se il corpo dovesse fare uno sforzo per far uscire tutta l’aria e svuotarsi” era precisa, doveva averlo guardato bene.

Il giorno dopo, al funerale, c’erano un sacco di ragazzi, tanti per essere quello di un vecchietto. E’ che mio nonno era simpatico. Era ironico e sagace, faceva sempre battute buffe e un po’ cattive sulle svariate peculiarità della mia famiglia troppo esuberante, per la sua riservatezza.

Battibeccava sempre con mia nonna, si vedeva che si volevano bene. Nonna è una gran cuoca, vera cucina napoletana, grassa e stracondita. Una volta, d’estate, eravamo a tavola la famiglia al gran completo, e c’era un consumo di tovaglioli di carta impressionante per assorbire tutto l’olio che colava da mani e bocche, “Potremmo appendere una tovaglia sulla tavola” disse lui dietro una montagna di carta appallottolata, “così ci puliamo tutti insieme, che ne dici?” mi guardò col sorriso sghembo che gli era rimasto dopo l’ ictus. Ce l’aveva sempre quel sorriso, quando si rivolgeva a me.

Quando lui cominciò a star male io ero già andata via da un pezzo. Quando tornavo a casa lo andavo a trovare e negli ultimi tempi era sempre più spesso a letto, sempre più magro e debole. L’ultima volta mi aveva chiesto dell’università, “Mi mancano due esami, poi mi laureo” ho mentito io. “Brava” mormorò lui facendo uno sforzo per toccarmi la mano. Vidi mia nonna sorridere perché lui non parlava da giorni.

Quando era troppo tardi mi sono ricordata dei francobolli, centinaia e centinaia, conservati nelle scatole di latta. "Saranno tutti attaccati tra di loro, ammuffiti" ho pensato. Magari tra un po’ a qualcuno verrà in mente di venderli.

giovedì 31 luglio 2008

I giochi della sera

Quando eravamo piccoli, verso la metà di Luglio, io e la mia marea di cugini, partivamo tutti insieme per le vacanze. I grandi ci stipavano in un paio di macchine e ci portavano al mare, in due villette comunicanti sulla spiaggia.
Per noi era una gran pacchia, aspettavamo l’estate tutto l’inverno per scorazzare due mesi polverosi e felici dalla mattina alla sera, in branco. La notte dormivamo in tre o quattro per letto, facendo una confusione terribile fino a che non crollavamo sfiniti.
L’ultima estate tutti insieme, non mi ricordo chi di noi, s’inventò le categorie di giochi “del giorno” e di giochi “della sera”. I primi erano tutti quelli che si potevano fare all’aperto, in strada o sulla spiaggia; i secondi, invece, li facevamo in camera, dopo cena.
Il più gettonato, quello che diventò il nostro preferito, era Le torturine di Candy Candy. Facevamo il tocco per assegnare il ruolo di Candy e Susanna imbrogliava quasi sempre per farla lei. Gli altri, a turno, si spartivano i ruoli degli amici e dei nemici, i malvagi Nial e Iriza.
Candy, la povera orfanella, veniva legata a pancia in giù sul letto e i fratelli cattivi ci studiavano su l’anatomia, la torturavano di pizzicotti e le facevano il solletico mentre gli amici cercavano di salvarla.
I maschi, col tempo, diventarono più ingegnosi e perfezionarono gli esperimenti, per esaminarci indossavano dei guanti di lattice color crema rubati dal cassetto della cucina e usavano le mie matitine di Hello Kitty come termometri. Candy doveva rimanere assolutamente immobile mentre gli altri discutevano della sua condizione fisiche con aria da scienziati.
Una sera, verso la fine di Agosto, aveva piovuto tutto il giorno e noi eravamo rimasti in casa ad annoiarci, dopo una lunga sessione di torturine spogliammo Martino, il più piccolo, e lo sistemammo in piedi sul letto, di fronte a noi per cantargli la sua canzoncina preferita. A turno gli facevamo dondolare di qua e di là il minuscolo pisellino, come la campana della filastrocca, e intanto cantavamo in coro “Fra martino campanaro dormi tu…suona le campane din don dan”.
In quel momento entrò mia zia in camera, ci vide e lanciò un urletto; poi chiamò mia madre “Maria” stillò, “Muoviti, vieni qua”.
Mamma accorse preoccupata “Che è successo?” disse.
“Guarda” mia zia ci indicò con la mano, eravamo sudati e scapigliati, mezzi nudi e canterini, “Questi ragazzini sono troppo…troppo…” non trovava la parola adatta “…troppo liberi” sbottò alla fine.
“Ma sono solo bambini” disse mia mamma.
Noi non capivamo perché gridassero tanto, Martino scoppiò a piangere e io, confusa, cercai di proteggerlo “Stavamo solo giocando a Fra Martino”, dissi facendo uno sforzo incedibile per trattenere le lacrime. Non volevo piangere perché mi sembrava un ammissione di colpa, e io non avevo fatto niente. Ma non servì a molto. Da quel momento le cose cambiarono. Prima di tutto ci divisero, femmine in una stanza, maschi in un'altra, l’estate stava per finire e in casa c’era un’aria pesante.
Chiedemmo spiegazioni, qualcuno all’inizio si rifiutò di obbedire alla nuova regola, ma non ci fu niente da fare, la decisione degli adulti fu irrevocabile.
Noi bimbe, nella nostra stanza, continuammo per un po’ con i giochi “della sera”, ma da sole non era più tanto divertente. Prima che l’estate finisse avevamo già perso interesse.
Poi ricominciò la scuola.