mercoledì 22 luglio 2009

mi metti lo smalto?


mi metti lo smalto?, inserito originariamente da La Simi.

favori estivi tra amiche...

giovedì 9 luglio 2009

E.T., il precariato e quella mia felpetta rosa

Dedicated to Manù


Anche se la mia memoria è davvero scarsa, e tu lo sai, ricordo perfettamente le due bimbette che eravamo entrare al Cinema Vittoria, quello sotto casa mia. Ricordo tuo padre esibire una delle sue innumerevoli tessere che lo facevano accedere gratis ovunque, addirittura forse un tesserino siae, che chi sa chi gli aveva procurato. Era il 1983 e noi avevamo circa sette, otto anni. Era quasi Natale ed eravamo tutte imabuccate con sciarpe e cappelli. Poi il buio della sala, e la magia del cinema.

Sono passati 26 anni, ho avuto più volte a che fare con la siae. Oggi, per esempio, è il penultimo giorno al Trevi, mancano due statini e si chiude, facevo il calcolo dei giorni mancanti così, contando gli statini. È stato il “contratto a progetto” più interessante degli ultimi tempi (maledetto precariato!), dopo set e turneè il più bel lavoro fatto in assoluto, in tutti i sensi. Unico nella storia del mio jumpworking che mi dispiace un po’ lasciare…lavorare in un cinema, d’essey, un posto “che fa cultura” come si dice adesso, non è affatto male ma, come tutte le cose belle, non può durare troppo a lungo, sennò si guasta. Io sono precaria, e sono precaria dentro.

Quando le luci si accessero, alla fine del film, io ero senza parole. All’uscita tu volevi chiacchierare, ma io avevo un nodo in gola che non mi spiegavo e non riuscivo a dire niente, “bello eh?” chiedevi. Sei sempre stata brava a razionalizzare, amica mia, invece io non riesco a reagire subito e, ancora adesso, se sono molto molto felice, molto molto emmozionata, molto molto triste, mi viene da piangere. Io volevo solo andare a casa e ripensare a quella specie di mostriciattolo con gli occhi azzurri, enormi, brutto tanto che se lo avessi incontrato avrei avuto paura. E la paura era quello che volevo. Pensavo a come sarebbe stato avere un segreto così. Pensavo alle separazioni. E volevo restare bambina per sempre. Quel film l’ho rivisto tante volte, gli volevo così bene, ad E.T., perché lui esisteva lassù, ed era mio amico, e lo adoravo così tanto che mia madre mi comprò una felpetta rosa confetto, con l’extraterrestre gommato sopra, bellissim. E avevo anche un pupazzo, col dito che si illuminava, le pieghette molli e tutto. Non so dove siano finiti.

Parecchi anni dopo, ero a Milano in un supermercato con un allora appena conosciuta coinquilina, e come regalo di compleanno per un suo amico comprammo una videocassetta del film con contenuti speciali e pupazzetto incorporato a 9.90. Poi io mi ci fidanzai, col suo amico, e il pupazzetto si è trasferito con noi.

Ma visto che, anche di questi cinici tempi umani, tutto torna, come regalo ultimo, ciliegina sulla torta di fine lavoro, mi è capitato di conoscere l’uomo che se lo è inventato, quell’orribile mostrino che tanto ho amato, che ha popolato i miei pensieri di storie e fantasie da bambina. Quindi, anche se di solito, come dice qualcuno “francamente me ne infischio”, stavolta ho chiesto un autografo, per il mio amico E.T., e l’ho fatto firmare dall’autore, sulla panza, con un pennarello nero medio, raccontandogli la storia della felpa rosa. E’ un vecchiettino piccolo, magro, alle prese con sto pupazzetto grigiastro, sorrideva divertito. E.T. è contento, e anche io. E ho pensato alle amicizie che durano nel tempo. Queste si che sono soddisfazioni nella vita…

martedì 14 aprile 2009

Scatole di francobolli

Mio nonno collezionava francobolli.
Quando ero piccola, una volta all’anno, riempivamo con l’acqua tiepida il lavandino marrone scuro di casa sua e li mettevamo tutti a bagno, per togliergli la polvere e la puzza di naftalina che nonno metteva nelle scatole dove li conservava, quelle di latta che si usavano una volta per i biscotti.
Io rimanevo incantata a guardare quei minuscoli e delicatissimi quadratini di carta che galleggiavano leggeri e si attaccavano ai bordi lisci della ceramica. Al minimo movimento c’era il rischio che si sovrapponessero uno all’altro, ed era difficile poi separarli da bagnati senza farli rompere. Io avevo il compito di evitare che questo succedesse e li controllavo con attenzione, dividendoli con le dita grassocce appena loro minacciavano di avvicinarsi.

Poi è morto, nel giro di pochi giorni, e io non sono entrata nella sua stanza. Ho solo sbirciato e ho visto un angolo di letto ricoperto di rose rosse. Qualcuno le aveva sparse alla rinfusa, mia nonna forse, e mi piacque pensare che mio nonno era tutto ricoperto di fiori.

Una vicina di casa aveva portato due guantiere giganti cariche di cornetti appena sfornati e ricoperti di impalpabile zucchero a velo, una alla crema e una alla marmellata, come se stessimo festeggiando l’arrivo della primavera.
Nel salotto le mie zie parlavano sommessamente con mia nonna che cincischiava tra le mani un fazzoletto umido di lacrime. Non si capacitava. Loro due, da giovani, avevano fatto la fujtina, si erano sposati alla chetichella. Era tempo di guerra e queste cose succedevano. Appena l’anno prima avevano festeggiato le nozze d’oro.

Ripenso a quello che lui mi augurava ad ogni compleanno o ricorrenza “Tutto quello che il tuo cuore desidera”. Questo auspicio mi ha accompagnato fin da bambina. Quello che il mio cuore desidera...
Come se fosse facile saperlo, nonno.

Sul divano c’era mia madre, ma io non volevo avvicinarmi. Se lo avessi fatto avrei dovuto confortarla e lei avrebbe pianto, e lo avrei fatto anch’io perché non sopporto di vederla piangere. Una zia mi ha sospinto leggermente verso di lei, come a dire stalle vicino.
Io mi sono avvicinata strisciando i piedi, con gli occhi bassi. Mi sono seduta accanto a lei e mamma mi ha abbracciato. E’ scoppiata a piangere immediatamente, come se non aspettasse altro che me, per aprire il rubinetto. Io mi sforzavo di tenere dentro le lacrime davanti a tutta quella gente.
Mi ha raccontato che era vicino a lui, quando ha esalato l’ultimo respiro, ha detto che non era proprio un respiro, “Più un soffio” ha detto, “uno sbuffo, come se il corpo dovesse fare uno sforzo per far uscire tutta l’aria e svuotarsi” era precisa, doveva averlo guardato bene.

Il giorno dopo, al funerale, c’erano un sacco di ragazzi, tanti per essere quello di un vecchietto. E’ che mio nonno era simpatico. Era ironico e sagace, faceva sempre battute buffe e un po’ cattive sulle svariate peculiarità della mia famiglia troppo esuberante, per la sua riservatezza.

Battibeccava sempre con mia nonna, si vedeva che si volevano bene. Nonna è una gran cuoca, vera cucina napoletana, grassa e stracondita. Una volta, d’estate, eravamo a tavola la famiglia al gran completo, e c’era un consumo di tovaglioli di carta impressionante per assorbire tutto l’olio che colava da mani e bocche, “Potremmo appendere una tovaglia sulla tavola” disse lui dietro una montagna di carta appallottolata, “così ci puliamo tutti insieme, che ne dici?” mi guardò col sorriso sghembo che gli era rimasto dopo l’ ictus. Ce l’aveva sempre quel sorriso, quando si rivolgeva a me.

Quando lui cominciò a star male io ero già andata via da un pezzo. Quando tornavo a casa lo andavo a trovare e negli ultimi tempi era sempre più spesso a letto, sempre più magro e debole. L’ultima volta mi aveva chiesto dell’università, “Mi mancano due esami, poi mi laureo” ho mentito io. “Brava” mormorò lui facendo uno sforzo per toccarmi la mano. Vidi mia nonna sorridere perché lui non parlava da giorni.

Quando era troppo tardi mi sono ricordata dei francobolli, centinaia e centinaia, conservati nelle scatole di latta. "Saranno tutti attaccati tra di loro, ammuffiti" ho pensato. Magari tra un po’ a qualcuno verrà in mente di venderli.