giovedì 31 luglio 2008

I giochi della sera

Quando eravamo piccoli, verso la metà di Luglio, io e la mia marea di cugini, partivamo tutti insieme per le vacanze. I grandi ci stipavano in un paio di macchine e ci portavano al mare, in due villette comunicanti sulla spiaggia.
Per noi era una gran pacchia, aspettavamo l’estate tutto l’inverno per scorazzare due mesi polverosi e felici dalla mattina alla sera, in branco. La notte dormivamo in tre o quattro per letto, facendo una confusione terribile fino a che non crollavamo sfiniti.
L’ultima estate tutti insieme, non mi ricordo chi di noi, s’inventò le categorie di giochi “del giorno” e di giochi “della sera”. I primi erano tutti quelli che si potevano fare all’aperto, in strada o sulla spiaggia; i secondi, invece, li facevamo in camera, dopo cena.
Il più gettonato, quello che diventò il nostro preferito, era Le torturine di Candy Candy. Facevamo il tocco per assegnare il ruolo di Candy e Susanna imbrogliava quasi sempre per farla lei. Gli altri, a turno, si spartivano i ruoli degli amici e dei nemici, i malvagi Nial e Iriza.
Candy, la povera orfanella, veniva legata a pancia in giù sul letto e i fratelli cattivi ci studiavano su l’anatomia, la torturavano di pizzicotti e le facevano il solletico mentre gli amici cercavano di salvarla.
I maschi, col tempo, diventarono più ingegnosi e perfezionarono gli esperimenti, per esaminarci indossavano dei guanti di lattice color crema rubati dal cassetto della cucina e usavano le mie matitine di Hello Kitty come termometri. Candy doveva rimanere assolutamente immobile mentre gli altri discutevano della sua condizione fisiche con aria da scienziati.
Una sera, verso la fine di Agosto, aveva piovuto tutto il giorno e noi eravamo rimasti in casa ad annoiarci, dopo una lunga sessione di torturine spogliammo Martino, il più piccolo, e lo sistemammo in piedi sul letto, di fronte a noi per cantargli la sua canzoncina preferita. A turno gli facevamo dondolare di qua e di là il minuscolo pisellino, come la campana della filastrocca, e intanto cantavamo in coro “Fra martino campanaro dormi tu…suona le campane din don dan”.
In quel momento entrò mia zia in camera, ci vide e lanciò un urletto; poi chiamò mia madre “Maria” stillò, “Muoviti, vieni qua”.
Mamma accorse preoccupata “Che è successo?” disse.
“Guarda” mia zia ci indicò con la mano, eravamo sudati e scapigliati, mezzi nudi e canterini, “Questi ragazzini sono troppo…troppo…” non trovava la parola adatta “…troppo liberi” sbottò alla fine.
“Ma sono solo bambini” disse mia mamma.
Noi non capivamo perché gridassero tanto, Martino scoppiò a piangere e io, confusa, cercai di proteggerlo “Stavamo solo giocando a Fra Martino”, dissi facendo uno sforzo incedibile per trattenere le lacrime. Non volevo piangere perché mi sembrava un ammissione di colpa, e io non avevo fatto niente. Ma non servì a molto. Da quel momento le cose cambiarono. Prima di tutto ci divisero, femmine in una stanza, maschi in un'altra, l’estate stava per finire e in casa c’era un’aria pesante.
Chiedemmo spiegazioni, qualcuno all’inizio si rifiutò di obbedire alla nuova regola, ma non ci fu niente da fare, la decisione degli adulti fu irrevocabile.
Noi bimbe, nella nostra stanza, continuammo per un po’ con i giochi “della sera”, ma da sole non era più tanto divertente. Prima che l’estate finisse avevamo già perso interesse.
Poi ricominciò la scuola.

lunedì 12 maggio 2008

I fiori mai!

La mia è una famiglia numerosa, una marea di parenti, zie e cugini a profusione. Per questo, in linea di massima, cerco di evitare le riunioni familiari, fonte di dissidi e discussioni. Ma non posso farlo neanche troppe volte di seguito altrimenti divento irrimediabilmente la solita, ed essere la pecora nera, in una famiglia di lupi travestiti da agnelli, non è un gran piacere.
Perciò oggi, Domenica, sono a pranzo da mia nonna, mater familias in carica, dopo che mio nonno se n’è andato. Ci sono tutti tranne Rino, fratello di mia madre, l’unico che avrei visto con piacere. Probabilmente è impegnato con una “cliente”, che immagino alta, bionda e particolarmente annoiata. In sua vece però c’è la moglie, Rebecca, che non fa altro che tessere le sue lodi e blaterare con orgoglio della sua dedizione al lavoro. La guardo con un vago senso di commiserazione. Mio zio mi ha raccontato che quando fanno l’amore lei si tira su la camicia da notte fino alla pancia e aspetta ad occhi chiusi, manco fosse una vittima sacrificale. Dice che è come fottere una bistecca cruda, poverina.
Argomento principale è la festa del due Giugno che un nostro parente acquisito da parte di madre, nonché prefetto di ***, organizza ogni anno nella sua megacasa richiamando in massa amici e parenti: leccornie, grande soirée e fuochi d’artificio. Io sono cinque anni che me la scampo, ma ho il sospetto che stavolta mi vogliano incastrare.
Tutto è cominciato per colpa di mia nonna, ultrasettantenne, sarta da una vita e vanitosa come poche al mondo. Si parla degli abiti da indossare al party, bisogna trovare quello adatto per ognuno, cadesse il mondo.
Questo è esattamente il tipico problema che può impegnare le donne di una famiglia per settimane intere, se poi si tratta della mia, le sfumature del caso assumono caratteristiche inquietanti. Comincia lei, “Io quest’anno non posso venire” annuncia. “Ma come” si scandalizza Maria, la primogenita, nubile e particolarmente felice di poter andare almeno una volta all’anno ad una festa come Dio comanda, camerieri compresi. L’anno scorso mio fratello mi ha raccontato che si è imboscata con due di loro, contemporaneamente. Non rinuncerebbe mai ad andare, “Tu devi venire” dice, “Tutti dobbiamo andare” ribadisce quasi strillano, invasata. Nonna a quello sbotto piagnucola, vuole essere pregata, “Ma non ho niente da mettermi” dice.
A momenti muoio, il pollo mi va storto, tossisco e mia madre mi guarda con aria bieca, “Smettila di mangiare con le mani” mi dice, e poi rivolta alla madre “ma non mi far ridere, c'hai la casa che se ne cade di pezze”.
Mio fratello sogghigna mentre attacca le cuffie alla tv per seguire il gran premio senza sentire le nostre chiacchiere.
“Puoi metterti quello blu di seta, ti sta così bene”, s’intromette Anna, mia cugina, con quella odiosa voce a trombetta che si ritrova.
“E le scarpe? non posso stare coi tacchi, mi fanno male le gambe” risponde lei.
“Mica ci vai a piedi alla festa” intervengo io stufa, ma commetto un errore, me ne accorgo subito. Lei ne approfitta e m’inchioda “e Eleonora che si mette?”domanda subdola rivolta a mia madre. Farmi accasare col figlio del prefetto, anche se siamo mezzi consanguinei, è il suo inconfessabile desiderio fin da quando ero piccola.
“Io non posso…” provo a dire. “Non ricominciare” fa lei addolorata “sono anni che non ci vieni, rimarrà male”, ha una devozione verso il “prefettissimo” che rasenta la fede, “si è tanto raccomandato” aggiunge. Poi si ricorda del vestito che mi ha fatto l’anno scorso, mai usato, “quello coi fiori, che ti dovevi mettere e poi non sei venuta, metti quello”, vuole farmi sentire in colpa. Guardo con terrore mia madre sperando che venga in mio aiuto, “Ad Eleonora i fiori non sono mai piaciuti…” dice mia madre.
“Come?, e il vestito che gli ho fatto l’alt’anno?” insiste nonna.
“Lo ha dato a me” interviene quella cretina di Anna, tanto per mettermi in cattiva luce.
“E stai un po’ zitta” sbotto io.
“Quello a fiori? Per carità, Eleonora?... i fiori mai!”, insiste mia madre, come se fosse un gran merito non amare le piante.
Il motivo per cui non muoio dalla voglia di andare alla festa del prefetto, motivo noto a me sola è, ovviamente, il prefetto stesso.

Quando ero ragazzina, e lui un uomo agli inizi della carriera, d’estate passavamo insieme molto tempo, in villette contigue a picco sul mare dove la famiglia si riuniva per trascorrere le vacanze. Uno scempio architettonico di proporzioni illustri.
Lui non era ancora prefetto, si era da poco sposato con la figlia di una delle sette sorelle di mia nonna, mi regalava sempre ciondolini d’oro per le mie collane e mi faceva un sacco di complimenti. Io lo adoravo, arrivava con macchine esagerate e io mi divertivo a lavarle per lui. In cambio me le faceva guidare per qualche metro nel viale d’ingresso e mi scarrozzava beata per tutto il paese.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato appunto cinque anni fa, per la festa del 2 giugno. Erano già quasi tutti via ma io ero rimasta perché Elena, sua figlia, voleva che rimanessi a dormire lì. Eravamo in un salottino dell’ultimo piano e stavamo chiacchierando. Lei si era innamorata del suo istruttore di equitazione e voleva chiedermi pareri sulle strategie di approccio, la musica arrivava attutita dal salone e io fumavo di nascosto una sigaretta. A un certo punto lui entrò barcollando, mormorò “finalmente affancu…” poi si accorse di noi, “di che parlate bambine?” chiese.
“Lascia stare è ubriaco” disse Elena senza farsi sentire.
“Seduzione” risposi invece io, sincera. Lui ci guardò, si allentò la cravatta e si tolse la giacca, la buttò sul divano lì accanto, tanto qualcuno l’indomani l’ avrebbe portata via, si versò del Porto in un bicchiere gigante e si sedette su una poltroncina di fronte a noi. Quant’è fico pensai.
Rimase zitto. Se ne stava in silenzio a sorseggiare il suo drink, pensando presumibilmente ai diritti-doveri di un uomo della sua posizione, e intanto ci guardava. “com’è andata papa?” chiese Elena cercando di cambiare discorso.
“Bene bene” disse facendo un gesto con la mano come se dovesse allontanare una mosca insistente. “chi volete sedurre?” domandò curioso.
“Oh nessuno” disse Elena, “Parlavamo di come si seduce un uomo” precisai io, “ci servirebbe il punto di vista di un esperto” aggiunsi maliziosa. I miei ricordi di bambina mi facevano avere un atteggiamento piuttosto confidenziale.
Lui rise divertito “Un uomo non lo so” disse, “però posso dirvi come conquisto le donne io”.
“Le donne non si conquistano” fece Elena “Sembra che stai parlando di un appezzamento di terra!”.
“Si conquistano, eccome” ribatte lui, “e secondo il mio modestissimo parere…” cominciò con aria seria e concentrata, fermandosi a metà frase, quasi facesse un grosso sforzo, a dire quello che stava per dire “…le donne si seducono con lo sguardo” concluse, rallentando il ritmo delle parole. Poi mi guardò e sorrise.
Sembrava tranquillo e rilassato, noi ci accoccolammo davanti al camino, sedute ai suoi piedi, pronte per assorbire una lezione di vita.
“Quando sono attratto da una donna per prima cosa la studio attentamente” proseguì lui con tono didascalico, mentre mi guardava attentamente, “osservo i suoi movimenti, il suo atteggiamento nei miei confronti, cerco di capire se mi preferisce agli altri”.
Elena poggiava sonnacchiosa la testa sulle mie gambe, io cinciscavo nervosa il pacchetto di sigarette. La sua voce mi aveva sempre fatto uno strano effetto, era la voce di un politico, fatta apposta per convincere. Continuò ad elargire alcolica saggezza maschilista con innata sicurezza, “Se mi accorgo che è nervosa, che non riesce a stare ferma...vuol dire che è emozionata. Imbarazzata. A volte sono la stessa cosa. Un buon segno” proseguì lento, come se dovesse scollarsi le sillabe dalla lingua una ad una.
Io lasciai immediatamente perdere il pacchetto si sigarette e cominciai a torturarmi una ciocca di capelli, senza rendermi conto. Guardai Elena che quasi dormiva. Lui sorrideva. Con quel maledetto sorriso. “Continua” disse Elena nel dormiveglia.
“Se lei capisce che la sto studiando allora è anche intelligente, e una donna intelligente è sempre meglio di una stupida”.
“Eppure gli uomini vanno dietro a certe…” mormorai. Lui mi guarda soprappensiero, come se mi vedesse per la prima volta, “io le preferisco intelligenti” dice.
La mia temperatura corporea stava aumentando di svariati gradi, avevo le guance in fiamme, le gambe molli e la sensazione di calore nella pancia aumentava ogni minuto di più.
“E poi?” dissi con un filo di voce, solo per sentirlo parlare ancora un po’.
“Poi cerco un occasione per starle vicino, possibilmente da soli, e sempre guardandola, senza sfuggire mai lo sguardo, le dico quanto è bella, perché ogni donna lo è, in qualche modo, anche quelle che all’apparenza non lo sembrano. Le dico che mi piace, che ho voglia di baciarla…”.
Io rimanevo lì, con la testa della figlia sulle mie ginocchia, a farmi accarezzare dal suono della sua voce, mentre ripensavo alle inoffensive coccole che mi faceva da piccola. Sentì Lisa che rientrava rumorosamente in camera, sua moglie, mia zia di secondo grado, che riusciva a reggere lo stress del ruolo solo aiutata da una serie infinita di psicofarmaci. Se non mi dà un bacio con la lingua adesso morirò dalla voglia per sempre, pensai.
Lui si alzo di scatto, disse “Ora vado a letto”.
“Di già?” feci io che sarei rimasta ad ascoltarlo per tutta la notte.
“Si” disse lui guardandomi “Prima che sia troppo tardi. E non fare tardi neanche tu Eleonora, altrimenti domani non ti alzerai in tempo per partire”.
“Il capo sei tu”, dissi con un filo di voce. Era la risposta che gli davo da piccola, quando mi diceva di far qualcosa che non mi andava, il capo sei tu.
Mi mossi e Elena bofocchiò “Non siamo più delle bimbe pa’”.
“Me ne sono accorto” disse lui uscendo.
Quella era stata l’ultima volta. Il giorno dopo mia madre venne a prendermi prima di pranzo, e lui non si fece vivo per tutta la mattinata.

Il giorno della festa il telefono comincia a squillare presto, nonna per prima, per sapere chi sarebbe andato a prenderla, poi Anna che voleva venire in macchina con noi, poi Maria per parlare con mia madre. Nel primo pomeriggio stacco la spina esasperata.
“Ma dobbiamo ancora decidere chi va a prendere nonna, devo sentire Rino, quello sciagurato c’è l’ha staccato, figurati se Rebecca viene, da sola” strilla mia madre appena se ne accorge.
Io ho un numero segretissimo di cui nessuno, tranne poche fortunate, è a conoscenza, “lo chiamo io” dico “sta tranquilla”.
“Mi sta passando quel poco di voglia che avevo” ci comunica mio fratello dalla sua stanza.
“Ma che avete tutti! E’ una festa, mica una marcia funebre!” sbraita lei dal bagno, “per favore ragazzi…” continua col tono dei discorsi seri “non fate come al solito. Marco, non ti presentare con le scarpe da ginnastica, e tu, Eleonora, mettiti un vestito carino, ti prego, nero, blu, non quelle cose colorate… e non fate tardi come al solito!” si raccomandò prima di uscire.
Nonostante le sceneggiate mi agghindo con estrema cura, già che siamo in ballo…tiro fuori il vestito della laurea, un tubino nero attillato lungo fino a terra, con una scollatura dietro che mi lascia scoperte le fossette sul culo, di cui vado fierissima. Mi metto lo smalto sulle unghie dei piedi e dei sandali col tacco altissimo, poi mi trucco da battaglia.
“Come sto?” chiedo infine a mio fratello.
“Sembri una mignotta” risponde lui.
“Gentile…” commento “Tu sei pronto? Andiamo?”.
“Via…”, fa lui alzandosi con aria da martire “in pasto ai leoni”.
Naturalmente siamo in ritardo e dobbiamo ancora passare a prendere Anna. Lei è tutta in ghingheri sotto il portone, ci aspetta da una buona mezzora. Per tutto il viaggio continua a ripetere a intervalli regolari“ Ely muoviti, è tardissimo…ma vedi che traffico, ci metteremo ore” .
“Le dive si fanno attendere” sfotte mio fratello, poi si preoccupa, “finirà tutto il buffet, ci vengo solo per quello!”.
“Sei disgustoso” fa Anna.
“E tu un isterica” risponde lui.
Cominciano a litigare e trillare Isterica-porco, oca-stai zitto, esaurita-stronzo.
“BASTA! state un po’ buoni, e che cazzo!” dico nervosa “Un po’ di rispetto, sto guidando, e sto per incontrare il sogno erotico della mia fanciullezza” dico. Mi guardano strani ma finalmente stanno zitti.
Arriviamo alla villa, mollo l’auto nel viale d’ingresso, incastrandola tra le decine già parcheggiate, mi rimetto i sandali che ho tolto per guidare e mi vomito fuori dalla macchina .
“WAU” esclama Anna guardando il giardino illuminato da centinaia di lanternine colorate, pieno di gente che cicaleccia.
“Carino” concedo io.
La padrona di casa, nostra zia, con un vestito improponibile e carica di gioielli come la Madonna di Piedigrotta, è sulla porta ad accogliere gli invitati.
“Benvenuti, benvenuti!” esclama quando ci vede.
“Ciao Rosalba” la saluto il più naturale possibile, “come va?”.
“Benissimo, benissimo!” risponde lei totalmente sopra le righe.
“Siete elegantissimi!” ci dice “elegantissimi. Entrate, entrate”.
Tratteniamo l’ilarità, Rosalba raddoppia sempre le parole, e la cosa ci fa invariabilmente scompisciare dal ridere.
“Ubriaca ubriaca…” mi sussurra mio fratello nell’orecchio.
“Pure noi! pure noi!” lo incito entrando.
Ci facciamo largo tra la gente, Anna individua subito un paio di persone che conosce e le va a salutare, cosa che io non farei mai. Marco si fionda sul buffet, “Portami qualcosa” gli dico dietro. Ho giurato a me stessa che per nessun motivo al mondo mi sarei accostata alla ressa davanti al tavolo ricoperto di vassoi e piatti e zuppiere stracolmi di cibo.
Mia nonna mi vede, “Che bella nipotina” dice orgogliosa.
“Mi fanno male i piedi” rispondo io “‘sti tacchi malefici”.
“ti capisco, ti capisco” fa lei che ha lo stesso vezzo familiari di ripetersi, “ma chi bella vuol sembrare...” comincia con saggezza popolare.
“Si, si nonna lo so” l’interrompo, e chiedo a Rebecca dov’è Rino. Ho bisogno di un alleato. “E chi lo sa” risponde lei già brilla, fa un gesto fatalista con la mano, “sarà in giro…”
Esco a cercarlo ancheggiando leggermente sui tacchi, “non sculettare in questo modo” mi dice mio fratello quando gli passo accanto. Gli caccio la lingua e mi dirigo verso la piscina. Un fischio da camionista mi blocca, “Rino!” esclamo sollevata.
“Schsss!” fa lui col dito sulla bocca “altrimenti Rebecca mi trova”.
“Perché ci stai ancora insieme?” gli chiedo io. Lo faccio sempre.
“Credi davvero che sarebbe più felice se la lasciassi?” mi rimbalza lui di solito, e a quel punto non so più che ribattere.
Stavolta invece dice “Non mi fare la predica, almeno tu”, mi prende in giro, “quanti uomini hai irretito?” mi chiede, e poi “…Lo hai già visto?”. Lui sa.
Scuoto la testa,“Sono appena arrivata” rispondo. Rino mi prende per le spalle, mi gira di 180° e indica un uomo col mento.
Dall’altra parte della piscina, al centro di un gruppetto di sei sette persone, c’è lui, elegantissimo come sempre.
I nostri sguardi si incrociano, mi ha riconosciuta, “Come sei cresciuta” dice avvicinandosi verso di me. Dio com’è invecchiato, penso io. Ha i capelli brizzolati e gli occhi, spalancati per la sorpresa, sono segnati da occhiaie profonde, sembra anche più basso di quello che ricordavo, ma forse sono i tacchi. Mentre sta per dirmi qualcosa un altro gruppo di persone lo blocca.
Io tornò a girarmi verso Rino e dico “Ho freddo, rientriamo?”.
“Come vuole lei madamoiselle” fa lui istrionico porgendomi il braccio.
Con la coda nell’occhio vedo che mi sta guardando, non mi stacca gli occhi di dosso fino a che non sono dentro.
“Impressione?” chiede Rino.
“Deludente” faccio lapidaria.
“Ma come!” dice lui “Gallina vecchia non fa buon brodo?”.
“E dalle co' ‘sti proverbi!” sbuffo io, “anche prima, nonna…”
“I pregi di una famiglia sono i difetti di un’altra” fa lui sardonico.
A braccetto ci avvicinammo agli altri che, come sempre succede, in principio si erano dispersi in varie direzioni ma appena a metà serata sono già irrimediabilmente compattati attorno alla nonna, seduta in poltrona. Hanno letteralmente occupato una parte del gigantesco salone, rendendola immediatamente la più chiassosa.
“Hai visto il vestito di Rossella?” mi domanda Anna appena sono a portata d’orecchio.
“Rossella? E chi è?” rispondo distratta.
“Finito di confabulare con mio marito?” mi aggredisce Rebecca impedendomi di capire chi diavolo è Rossella.
“Parlavamo di me, stai tranquilla” dico io conciliante, cercando di raggiungere mio fratello che si strafoca su un piatto stracolmo.
“Perché non vai a ballare col figlio del prefetto?” mi incita nonna, cercando di superare tutte le altre voci.
“Sempre i soliti discorsi!” s’intromette mia madre infastidita dalle premeditazioni di nonna.
“Tanto ballo con chi dico io” rispondo guardandomi intorno “sono io il capo adesso”. Mia madre mi guarda senza capire, mio fratello fa spallucce, io scandaglio la sala in cerca della prossima distrazione in grado di farmi passare in fretta la serata.