venerdì 30 novembre 2007

Aylynn

Questo può sembrare il racconto di un viaggio, in realtà è l’incredibile storia di come Aylynn sia il mio alter-ego quando divento troppo buffa per essere vera.

Sono partita il 12 Agosto, come al solito all’ultimo momento, col progetto di arrivare dritta fino a Parigi e raggiungere poi Ste e Manu che facevano l’erasmus lì.
Io volevo assolutamente passare per la Bretagna, magari arrivare fino a Brest la rocciosa, in cerca di streghe celtiche e cerchi magici.
Il treno per la capitale francese viaggiava di notte. Sistemo quattro sediolini stesi a mo’ di letto a una piazza e mezzo poi cerco di chiamare i miei amici, ma nessuno dei due risponde. Gli mando degli sms proponendo di raggiungermi in Bretagna tra 4-5 giorni. Poi mi addormento e faccio un sogno:
Sto guardando una discesa polverosa a picco sul mare, una specie di ripida Y capovolta. Nell’acqua c’è un’altalena costruita con travi di legno e dei bimbi ci giocano intorno. Musica di flauti in lontananza. Un grillo enorme salta davanti a me e io lo seguo. Quando mi fermo si ferma anche lui, gira la testa e mi guarda interrogativo. Mi aspetta. Poi si avvicina un tipo alto e dinoccolato con una mascherina da aviatore coi vetri a fondo di bottiglia, pelato e con ai lobi dei cerchi metallici del diametro di un paio di cm, come quelle tribù africane. E’ coperto di tatuaggi per metà del corpo ed è’ decisamente brutto. Dietro le lenti, però, ha uno sguardo dolce e amichevole. In ogni caso io mi fido. Si toglie un anello dall’orecchio e io gli infilo il dito nel lobo sbrindellato, rido e mi sento invincibile. Poi mi accorgo che in spiaggia ci sono Stefano e Manu che fanno il bagno e mi salutano con la mano.
Il gigante dice “Bene e Male non esistono in assoluto. Non perdere tempo cercando d’esser buona, cerca piuttosto di essere giusta”. Il grillo mi guarda e mi sorride.
Mi sveglio un po’ stranita nello scompartimento vuoto. “I sogni”, penso.
Accendo il cellulare e mi arriva un messaggino. I miei amici, appena sognati, mi rispondono. Si sono fatti contagiare dalla mia voglia d’avventura e mi mandano una frase oscura, quasi cifrata: “ci vediamo a Huelgoat l’8/8 alle 8”.
A Parigi mi fermo pochissimo. Seduta al tavolino di un bar faccio una veloce consultazione della cartina per vedere dov’è sto paesino. Scopro che è un bosco poco lontano da NOME. Ho circa cinque giorni per gironzolare prima e decido a grandi linee il percorso da fare. Inseguendo i ricordi di maria Antonietta di cui ho appena visto il film vado a VersaillesUel. La coda per entrare al palazzo, però, è infinita, ed io, insofferente, torno immediatamente in stazione e prendo un trenino diretto a Rambouillet. Arrivo lì che è ormai pomeriggio e mi fermo a mangiare in un parco con un laghetto dove ci sono due pesci enormi, pesci gatto credo, hanno entrambi i baffi. Lancio nell’acqua pezzi del panino e loro si fiondano alla velocità della luce. Se mettessi il dito a portata di bocca credo che me lo staccherebbero. Fantastico sulla possibilità di verificare la cosa ma mi fermo un attimo prima, come faccio quasi sempre quando sto per fare una cazzata.
Resto con il dito a pelo d’acqua e una sensazione d’irresponsabilità che non mi dispiace. Rifletto su come spesso basta un piccolo particolare per trasformare la cosa migliore di questo mondo in qualcosa di brutto o pericoloso. Io mi sento sempre vicinissima a questo confine.
Ho con me la tenda, ma a Chartres, che è lì vicino, dovrebbe esserci un ostello, ci arrivo in pullman che è quasi sera.
Vado a fare una passeggiata prima che diventi buio del tutto. Al centro del minuscolo paesello, di fronte alla cattedrale altissima, ho un lieve giramento di testa. Questa chiesa è antichissima, la struttura sembra una ragnatela. Io soffro della sindrome di Stendhal, che in pratica consiste nell’inebetimento di fronte alle opere d’arte. La prima volta successe durante una gita con la scuola. Rimasi quasi un’ora imbambolata davanti al Giudizio Universale, che era appena stato restaurato. Non mi ero accorta che gli altri proseguivano e all’appello in uscita non ero presente. Guardavo l’affresco come se fosse una moderna pubblicità subliminale sul bene e il male. L’azzurro del cielo, grattando via lo sporco di secoli, era brillante come se il colore non fosse ancora asciutto. L’affresco è in parte sul soffitto, costringe ad una posizione innaturale che fa girare la testa perché il sangue non circola e si schiacciano le cervicali. Io rimasi non so quanto tempo col naso in su, la testa leggera, dimenticandomi di tutto, persa nelle nuvole gonfie e nei corpicini ammassati, cercando qualcuno che mi somigliasse. Ero concentrata prevalentemente su inferno e purgatorio, il paradiso era troppo in alto. Un addetto al museo, avvertito dai miei compagni, mi trovò lì e mi riportò al pullman.
Davanti alla chiesa di Chartres mi succede di nuovo e resto a guardare imbambolata le vetrate colorate e trasparenti che la luce da fuori illumina come elettricità. Faccio resistenza allontanandomi camminando all’indietro e piano piano l’austera chiesa smette di avere potere su di me. Mi succede sempre ed è per questo che viaggio. Quando l’incantesimo è finito gironzolo per le vie antiche vicino al fiume. In un negozietto di souvenir compro un inutile scatola di pezzi di vetro, sembrano pietre preziose grezze e giganti.
Prossima tappa Orleans. La storia della pulzella mi ha sempre affascinato, Giovanna bruciata al rogo come una “strega”. Arrivo domenica che è tutto chiuso, per di più è ferragosto e ci sono i turisti. Prendo un treno che costeggia il primo tratto della Loira e mi fermo a Blois, dove monto la tenda in un campeggio stupendo. Lì c’è un castello fatto costruire da Caterina de’Medici, una delle donne più potenti della storia europea, fervente cattolica che conosceva il potere dei veleni, un'altra “strega”. Di fronte al suo castello c’è la casa del mago Hudinì, l’illusionista. Mentre sto lì, indecisa su quale delle due visitare, le sei finestre della casa del mago si spalancano contemporaneamente e sei gigantesche teste di drago sbucano fuori, come se volessero saltarmi addosso. Sobbalzo per lo spavento. Sono automi meccanici del XIX secolo, una casa-orologio.
Allontanandomi noto le code dei draghi, nella parte posteriore della casa, che sguisciano come serpenti luccicanti mentre rientrano nella tana. Alla fine dello show le finestre si richiudono da sole con un tonfo sordo, da casa dell’orrore. “Fenomenale” commento tra me e me.
In un turist point prendo i dépliant di tutti i castelli e ne scelgo uno che sembra quello della Bella Addormentata. All’interno c’è una stanza chiamata delle cinque regine, una di queste è Margherita di Valois, la regina poetessa.
Di fronte al letto a baldacchino c’è un arazzo con fauni silvestri. Uno su cui si fissa la mia attenzione ha in mano un flauto di legno e mi somiglia.
Nel pomeriggio mi avvicino alla costa bretone, il clima comincia a cambiare e l’aria è umida, l’oceano non è lontano.
Arrivo a Carnac stanca morta, mi fermo al primo spiazzo che trovo, vicino ad una spiaggia poco fuori dal paese. Monto la tenda e cerco di trovare per non so quanto tempo una posizione comoda prima di riuscire a chiudere occhio.
La mattina dopo mi sveglio più stanca di prima, esco per sgranchirmi le gambe e mi accorgo di un cartello che la sera prima non avevo visto:




ATTENZIONE
ZONA
INSALUBRE



Cerco di tranquillizzarmi pensando di aver dormito solo vicino a molta melma anche se la spiaggia non ha un aspetto invitante.
In quel momento mi accorgo di una musica che proviene da poco lontano. La conosco, ma non riesco a ricordare quando l’ho già sentita.
E’ un vecchio con un flauto di legno seduto su uno scoglio, in giro non c’è nessuno. Appena mi vede smette di suonare e mi dice qualcosa in una strana lingua, forse dialetto bretone.
Rispondo “Sorry, I don’t understand, non capisco”, ma il vecchio scuote la testa e ricomincia a suonare.
Mi do un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di essere sveglia, alzo di nuovo lo sguardo ed il vecchio è scomparso. Sulla roccia però c’è il flauto.
Io non ho mai suonato uno strumento in vita mia ma questo è un regalo per me, ne sono sicura. E’ legno di palissandro e deve essere antichissimo.
Non so come faccio a sapere queste cose, ma istintivamente lo avvicino alle labbra e comincio a suonare; e bene, devo dire. M’interrompo di scatto, so a malapena il nome delle note e sono totalmente stonata. Che diavolo sta succedendo?
Torno di corsa alla tenda la smonto veloce e mi allontano da li. Trovo finalmente un campeggio e mi sistemo nella prima piazzola libera. Vado subito a fare una doccia che mi rilassa, però comincio ad annoiarmi di stare sola ed in più sono anche spaventata.
Dopo cena mi riaddormento di botto e dormo per quasi due giorni di filato.
Quando mi sveglio mi accorgo di essere stesa su un centimetro d’acqua. Il sacco a pelo è fradicio e la tuta che indosso zuppa. La tenda, evidentemente, non è antipioggia.
Cerco di evitare la broncopolmonite e recupero nello zaino dei vestiti asciutti, poi richiudo la tenda, con le mani tutte molli e raggrinzite. Ho perso il senso del tempo ma credo che il giorno dell’appuntamento con i miei amici sia oggi.
Voglio chiamarli, ma non riesco a trovare il cellulare che era nella tasca laterale della tenda.
Rifaccio tutti i movimenti a ritroso senza risultato, per terra c’è un lago di melma e non ho nessuna speranza di ritrovarlo. Sono completamente isolata ed ho perso i numeri di telefono, che tragedia! Pian piano, però, l’avvilimento si trasforma in una sensazione di libertà. Comincio ad intuire che le risposte ad alcuni dilemmi che mi attanagliano sono nascoste nelle cose che mi stanno succedendo, solo che io non le capisco ancora. Comunque mi decido a fuggire dal campeggio che oramai è diventato una piscina, con le tende e le roulotte che galleggiano a pelo d’acqua.
Controllo sulla cartina la strada per Huelgoat e prendo un pullman turistico che passa di là. L’umore durante il tragitto fa l’altalena tra euforia e terrore.
L’autista si ferma ai margini del bosco, mi scarica e prosegue. Un cartello di legno informa:



Qui vive Merlino
mago delle
trasformazioni





Mi fermo sotto una pensilina ed accendo il fornelletto a gas per fare un tè. C’è una strana aria intorno e per ingannare l’attesa e farmi coraggio, suono il flauto.
Ad un certo punto, dal profondo del bosco, sento una voce di un bambino.
Mi giro a rallentatore, i peli delle braccia si rizzano: ero convinta di essere sola, con me non è sceso nessuno e di quei due neanche l’ombra.
Mi viene incontro una figura magra e leggermente più bassa di me.
Non è affatto un bambino.
I capelli sono lunghi e sottili, gli occhi a mandorla leggermente laterali, gli zigomi appuntiti, la bocca larga e sorridente.
Io resto incantata a guardare quando un colpo di vento ci scompiglia i capelli e scopre le sue orecchie, leggermente a punta.
Mioddio un folletto!
“Aylynn, me ne dai un po’?” dice con tono squillante.
Allungo il braccio per porgerle la tazza, “Scotta” l’avverto.
“Sei venuta all’appuntamento!” esclama l’esserino con voce ambigua. Mi guarda con fare di sfida, nei suoi occhi c’è uno sbrilluccichio divertito.
Come fa a sapere dell’appuntamento?
“Ti stavo aspettando” aggiunge misterioso.
Le nostre dita si sfiorano e mi ricordo all’improvviso il grillo del sogno, poi il fauno sul letto di Margot. Entrambi sono simili alla faccia che mi è di fronte, e devo dire che mi somiglia. Anzi, è identica! Ha anche un flauto uguale al mio, che regge nella mano sinistra.
Sembra di stare allo specchio.
Sorrido, “l’appuntamento eri tu?” domando incongruente.
“Il gigante ha ragione” mi dice, “Non pensare troppo, ascolta tutti, ma decidi da sola e sii sempre te stessa”, poi mi propone “Suoniamo?”.
Annuisco, contenta di mettere alla prova il mio talento appena nato.
Duettiamo nel bosco, come se fossi anch’io una ninfetta che abita lì. Dopo un po’, la mia copia fatata dice “Adesso dammi il regalo”.
Io ho solo un attimo d’imbarazzo, poi recupero dallo zaino le pietre colorate prese a Chartres e gliele do.
“Bellissime” mi dice sognante, “Ma ora devo andare, i miei amici mi stanno aspettando e i tuoi aspettano te”.
Sorride allontanandosi e “Non mi dimenticare” sussurra, prima di sparire nel bosco.

domenica 25 novembre 2007

L'ermafrodito

Lo conobbi d’estate. Lo notai perché mi somigliava; mi faceva pensare all’ermafrodito.L’archetipo del mostro mitologico, diviso in due perché troppo potente, mi ha sempre affascinato. Era diventato pure l’argomento della mia tesi, dal titolo “Maschile, femminile e neutro nel romanzo barocco veneziano di Giuseppe Marini Il Calloandro fedele”.I due protagonisti, Calloandro e la speculare Leonilda, sono eroi duplici, in continua trasformazione, molto annoiati dai cliché di corte.L’intreccio è ingarbugliato, si perde il filo, i maschi si travestono da femmine e viceversa, in una confusa escalation di scambi di ruolo. Nel labirintico romanzo i due si guardano, s’innamorano e si perdono. Dopo rocambolesche peripezie si rincontrano per caso a una giostra, lei indossa un'armatura che non è la sua, lui pure: non si riconoscono. Si fronteggiano, combattono e per poco non s’ammazzano.Il duello simboleggia il pericolo che scaturisce dall’unione delle due metà del prodigioso essere; avevo quasi convinto pure la mia relatrice. I poveri e inconsapevoli innamorati sono parti dello stesso tutto, gemelli siamesi divisi alla nascita, alla perenne ricerca l’uno dell’altra; devono lottare contro la passione, freudianamente parlando contro l’ES, e quindi contro loro stessi, per potersi finalmente ricongiungere. Avrei voluto gridargli “Scopate invece di combattere!”Lui era sicuro di avermi già incontrata, forse a qualche festino, quasi sicuramente sotto l’effetto di una massiccia dose di qualcosa, molto probabilmente pillolette con cuoricini fucsia stampigliati su.“Considerando il mio grado di entropia”, gli risposi citando seria la definizione dell’elettrone attorno al nucleo , “è improbabile, ma non impossibile”. Lui rise in un certo modo, e io pensai “omosessuale”, poi sperai “magari è bi”; l’idea che fosse un semplice etero non mi sfiorò minimamente. Invece dell’armatura, aveva una cinta a placche metalliche zeppa di strass, con un cuore rosso e la scritta I’m sexy di paillettes dorate, che io trovavo orribilmente bella e volevo assolutamente farmi regalare. Era scomposto come un bambino viziato, un dandy, anche se mi accorsi subito che la sua cultura era decisamente pop (nel senso di popular).Aveva una faccia che si poteva felicemente definire da schiaffi, e mai espressione sarebbe risultata più adatta.Mi accorsi subito che l’amica che era con lui mi fissava infastidita.Ci ritrovammo tutti a ballare in un bar sulla spiaggia, e quella che inizialmente era niente altro che una semplice sensazione si rivelò esattamente la pura verità: la donna ci controllava a vista. Lui continuò a non farsi grossi scrupoli, mi guardava di sottecchi e cercava di starmi il più vicino possibile. Quando riusciva a sfuggire la vigilanza ne approfittava per accarezzarmi il collo, mi passava le dita fredde di ghiaccio sulla schiena sudata e poi tornava veloce a concentrarsi sul bicchiere che aveva in mano.Io rabbrividivo di piacere, ma valutando la maggiore massa corporea dell’altra, cercai di allontanarlo rifilandogli di nascosto una serie di pizzicotti.Il tentativo non lo allontanò affatto anzi, sembrò divertirlo. Un paio furono forti come morsi, ma il signorino non fece una piega e rimase nei paraggi.Mi guardai le dita indolenzite e mi accorsi che sotto le unghia c’era del sangue. Alzai gli occhi su di lui e, per un attimo, intravidi la punta lucida e brillante della lingua che gli saettava tra i denti bianchi, come quella di un serpente.Gli piaceva, allo stronzo, e quando lo capì ebbi un lieve giramento di testa.Il mattino seguente, con un'espressione finto-colpevole, un bambino sorpreso con le mani nella marmellata, mi consegnò la cinta, ridotta in sei sette piccoli pezzi.Passai il resto della giornata sempre in compagnia di qualcuno.Lui era in fibrillazione, ma la sua volontà era pari a zero e allontanare il mastino da guardia che si portava dietro come marchio d’infamia non era qualcosa che io volevo o anche solo sarei stata in grado di fare.Venni a sapere che lei non beveva né fumava mai troppo, per non distrarsi e rischiare di perderselo per strada, che aveva più volte malmenato persone e, in definitiva, non aveva un buon carattere.Io faticavo a esercitare il dominio su me stessa, figuriamoci su un altro essere umano.L’infame schiavetto se ne stava tutto il tempo fermo e docile sotto l’ombrellone, legato a un’immaginaria corda lunga non più di una decina di metri. Appena lei si distraeva, però, mi cercava come una droga. Non riusciva a trattenersi; l’idea di un passaggio di mano, una prospettiva nuova e sconosciuta, che lo avrebbe liberato e immediatamente dopo incatenato a un giogo diverso, e quindi più desiderabile, non lo faceva stare nella pelle.Con me non ci aveva mai veramente provato, forse neanche ci sarebbe riuscito, ma aveva imparato a soddisfare le donne senza doverle necessariamente scopare, e scommetto che conosceva altrettanto bene i modi per allettare gli uomini. Con entrambi applicava lo stesso sottile ricatto.Una sera, lucida come un’antropologa che studia la natura umana, gli procurai un graffio lungo e profondo sulla parte destra del torace; fu l’unica volta che gli venne veramente duro.Il giorno dopo il segno rosso faceva bella mostra di sé sul suo petto abbronzato e implume, sembrava un punto esclamativo tremolante e sghimbescio. Passandosi le dita sulla ferita che andava rimarginandosi, lui mi disse con aria sognante “A contatto col mare brucia un casino”. La sua donna, poco lontano, mi guardava con odio. Mi prese un'ansia da giustizia universale e, in una specie di confronto alla mezzogiorno di fuoco, la affrontai, “Perché continui a starci insieme?” le chiesi, rendendomi perfettamente conto che era la domanda più stupida che potessi fare.“Cosa?” sbottò lei infuriata; tutto si aspettava fuorché quel mio tono partecipativo, “Lasciaci in pace” continuò bypassando la mia domanda senza sforzarsi neanche per un secondo di capire.“Cosa?” feci io a mia volta visto che, va bene tutto, ma fino a prova contraria era lui che, a una certa ora della notte, veniva a cercarmi come un cagnolino sbavettante; provai a spiegarglielo, “Guarda che è lui che…”“Lo so ma tu la devi smettere” disse la Kapò senza farmi finire, “sei uguale a lui” continuò con la rabbia che le montava sulla faccia “cattiva e malata”.Lui, protetto dietro le sue spalle, mi guardava adorante. “Ma guardati tu, piuttosto” sbottai fremente, “e non mi dire che è la prima volta perché non ci credo, lo farebbe con chiunque, per lui è un gioco, non lo capisci?”, insistevo per nessun motivo in particolare, solo per avere ragione, forse, “tanto io non lo voglio” continuai sprezzante “ho provato a mandarlo via, ma torna sempre” dissi, con la consapevolezza istantanea che la compagnia malsana cominciava a dare già i suoi frutti bacati.Due lacrimoni le spuntarono inaspettatamente dagli occhi iniettati di sangue, sembrava che parlasse di una povera vittima nelle grinfie malefiche di una mantide tentacolare, “Per farlo smettere non devi fare così…” piagnucolò isterica.“Vuoi darmi tu qualche consiglio? Ci sei riuscita così bene…” risposi insolente, cercando di fargli paura e ritagliandomi la possibilità di andar via in posizione eretta.Mi sembrava di avere davanti un bulldog pronto a saltarmi alla gola, avevo paura a voltarle le spalle, lanciavo veloci occhiate laterali per vedere se arrivava qualcuno, “Te lo puoi tenere” le dissi con l’aria di farle una concessione, mentre mi allontanavo camminando all’indietro come al cospetto di un cardinale.Partì il giorno seguente; lui, vedendomi andar via, guaì come un piccolo cucciolo abbandonato.

Per un attimo

  • In : rivista "Inchiostro" 2004
    Allineo, chiudo, “Premi start” dico. Lui preme e io aspetto… rrrrrrrrrrrrrr fa lo scanner. “Fatto” dice. Riapro, verifico, “Ok, passamene un’altra”. Riallineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr, aspetto… sono ore che lo stiamo facendo. Sul letto c’è n’è ancora un quantitativo impressionante, dentro quelle scatole di latta, quelle dove prima si tenevano i biscotti. Io abbastanza funzionale, ma essenzialmente controvoglia, gli sto facendo un favore e voglio che sia ben chiaro, lui ridotto all’ubbidienza verso di me, forse per la prima volta nella vita. Con la tecnologia ha ancora qualche problema. Col cellulare ad esempio. Lo tiene sempre nel borsello e non lo sente mai. È praticamente inutile che lo porti con sé. Quelle rare volte che risponde poi, anche se legge sul display che sono io, sua figlia, ha sempre un tono serioso, impacciato, come se parlare attraverso quell’aggeggio senza fili gli sembrasse strano, dopotutto. Per questo lo aiuto.Ovviamente ci siamo piuttosto stupiti quando, da un giorno all’altro, quasi a voler fornire la prova della sua buona volontà, si è comprato di tutto: videoregistratore con lettore DVD (con la modifica per leggere i cd dei marocchini), Play Station con gioco di vela per regate immaginarie (ma più che altro per attirare mio fratello e fargli passare più tempo a casa sua), computer pentium 4 con masterizzatore DVD (avendo ormai comprato il videoregistratore/lettore) con annessa stampante Epson a colori e l’altro ieri, per concludere, uno scanner. “Che cazzo se ne farà mai dello scanner” si è chiesto serafico mio fratello quando gliel’ho detto. Ricostruire il passato. Ecco cosa. E io lo sto aiutando. Precisamente quel genere di attività che tanto ama fare una figlia col proprio padre.Ci sono individui che impazziscono per cose di questo tipo, passare su videocassetta tutti i vecchi filmini delle vacanze, sfogliare album con intere generazioni di bambini in grembiule, centinaia e centinaia delle più diverse fasce d’età, tutti coi collettini bianchi e le espressioni buffe, raggruppati in gruppi di venti o trenta, con la maestra seduta davanti o di fianco, quasi sempre con un vestito a fiori e una pettinatura gonfia.Tutto a un tratto si è messo in testa di farlo anche lui. Vuole acquisire sul suo pc nuovo di zecca tutte le foto e le diapositive che ha fatto “Perché tanto ormai chi le vede più le dia… una volta sì, una volta si faceva…”. Intende quand’era giovane. Per un momento me lo immagino seduto al buio sul tappeto del salotto, insieme coi suoi amici. Annamaria con la fila in mezzo e la minigonna, come al solito, Saverio, con ancora i capelli sulla testa, Fulvio con la sempiterna Lucky Strike senza filtro tra le dita (adesso è in Brasile, l’unico che in qualche modo vive da ex sessantottino), la buonanima di Rosaria, poverina, quanto le volevo bene, mi aveva regalato un trenino che suonava i dischi mentre camminava di cui io ero letteralmente terrorizzata; un po’ in disparte mamma, bellissima, che ammicca all’obiettivo della mia fotografia mentale. Tutti insieme a guardare sul muro le immagini dell’ultimo viaggio in Turchia, Iugoslavia, o qualche altro posto che si portava in quegli anni, magari passandosi una canna. Lui era bravo, aveva una Canon nera con teleobiettivo e rullini tassativamente bianco e nero, anche dopo il colore. All’inizio le sviluppava da solo, in un bugigattolo trasformato in camera oscura in cui a stento ci si muoveva. Poi ha smesso di svilupparle, dopo un po’ di farle, alla fine anche di guardarle.Allineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr aspetto… Fatto. Riapro, controllo. Sto scannerizzando il passato dalle dieci di stamattina e davanti agli occhi, senza soluzione di continuità, mi sono passati: il castello mezzo diroccato di Santa Maria, con la spiaggia semivuota come solo negli anni Cinquanta poteva essere; mia nonna con i capelli nerissimi che sembrano pece, tiene in braccio un bambino piccolo, il suo figliolino morto di tubercolosi; il padre di mio padre, che io neanche me lo ricordo ma dalla faccia mi sarebbe piaciuto poterlo sfruttare un po’, come nonno; mio padre, con i pantaloncini alla zuava, magro e nero come una stecca di liquirizia, poi grande, con la divisa del militare e il cappello a bustina; mia madre, una ragazza carina col mento appuntito, con un vestito con le rouches che le aveva fatto mia nonna; una donna berbera col cerchio rosso sulla fronte e un bambino in braccio, avvolto in uno scialle bianco. Non ci sono foto del matrimonio. Mio padre, dopo la separazione, in un impeto di stupida vendetta, le ha strappate tutte. Credo si sia pentito, anche se non ce lo ha mai confessato. Forse è per questo che si fa tutto ‘sto sbattimento, per espiare. O per sicurezza, dovesse capitargli un altro momento no…Lui ogni tanto commenta qualche foto, dice qualcosa, “Ma non è che tutte ‘ste onde fanno male?”. Io lo guardo quando so che non mi sta guardando. Vorrei finire il prima possibile, le dita cominciano a essere grigie per la polvere e alcune foto sono così consumate che bisogna stare attenti ai bordi. Un’emeroteca casalinga con morti e feriti, facce conosciute cambiate col tempo. Sto per raggiungere il limite massimo di condiscendenza e si avvicina anche l’ora di cena, mio padre va in cucina e torna con un bicchierino di limoncello, “Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede. Tra meno di un paio d’ore sarà un po’ malinconico e un po’ ubriaco, metterà su un disco di Bob Dylan o James Brown e riguarderà il risultato del nostro lavoro. Probabilmente sarà felice, per un attimo.“Io tra un po’ vado” dico timida, sperando di non ferirlo.“Ok”, fa sbrigativo “facciamo questa e poi basta”. Mi passa un ultimo cartoncino, una delle poche foto a colori. Siamo io e lui sul balcone della casa vecchia. Io avrò sì e no cinque anni, un pulloverino rosso e un cappello in testa dello stesso colore. Abbiamo le facce tutte pitturate, lui mi aveva disegnato le schiocche rosse col rossetto e le sopracciglia da clown, io gli avevo fatto una serie di segni neri e irrazionali sulla faccia. Guardo la foto e per un attimo penso che forse volevo disegnargli un teschio in faccia, perché assomiglia a quello, poi mi sento in colpa per il pensiero macabro. “Com’ero piccola” dico allineando la foto al contrario sullo scanner. Chiudo, “Premi” dico. Aspetto… rrrrrrrrrrrrrrr, aspetto. Pixel dopo pixel io e lui compariamo sullo schermo. Nascosta dietro le sue spalle mi commuovo e, per un attimo, sono felice.