giovedì 11 ottobre 2007

Castano caldo intenso

In: "Io allo specchio" sperling & kupfer 2006

Tagliarsi i capelli, cambiargli il colore, aveva per lei, come per tutte le donne, una funzione ben precisa. Costituiva una sorta di avvertimento, come dire chi vuol capire… . Non tutti lo facevano.
Le succedeva sistematicamente ad ogni turnover di fidanzato. Uno la preferiva fatale e lei se li faceva crescere. Dopo un po’ si stufava e se li tagliava cortissimi.
Un giorno, per esempio, si mise con Toni, che l’aveva notata proprio per i capelli corti, ma dopo un po’ fece l’errore di mostrargli una sua foto di quando ce li aveva lunghi, “Eri più bella prima” disse lui. Lei pianse e desiderò non averlo mai fatto, ma non si sarebbe lasciata col precedente, se non lo avesse fatto, e non lo avrebbe conosciuto. Cominciò a farseli ricrescere ma quando tornarono di una lunghezza decente Toni ero già bello e dimenticato, senza mai aver avuto il piacere di cavalcarla tenendola per la coda.
Seguì un periodo di profonda contestazione con l’universo tutto che la portò al gesto estremo della macchinetta. Dopo, le ricrebbero con la riga dal lato sbagliato, per colpa di una vertigine che aveva sulla fronte, e lei neanche immaginava che ci fosse un verso “da donna” e uno no.
Raggiunse il massimo storico col più lungo rapporto della sua vita (due anni e tre mesi). Finì anche quello e, di nuovo a nuca scoperta, preferì per un po’ rapporti sporadici.
Negli intervalli tra uno e l’altro se li colorava; il più frequente, quello che resisteva più a lungo, era il rosso, in variazioni che andavano dal pompeiano alla tonalità menopausa (come la chiamava il padre), passando per un bordò rosso-violaceo. Schiariva e scuriva a secondo degli umori; una volta, per sbaglio, se li ritrovò neri corvini, lucidi lucidi da sembrare una parrucca.
Un periodo si faceva portare, da chiunque andasse a Londra, il Poppyred, introvabile in Italia, un fantastico gel (viola e blu cobalto possibilmente), che colorava qualsiasi elemento, solido o liquido che fosse, in un modo istantaneo e persistente. Lei si faceva questi esperimenti che duravano poche settimane e poi viravano in un argento giallastro orribile, a strisce.
Quando conobbe Francesca la ciclicità di colorazioni e ricrescite le aveva lasciato sulla testa delle bande orizzontali di vario spessore, che facevano invidia alle rocce arenarie più antiche del mondo, la cui età si calcola appunti in base alle stratificazione di materiali diversi, “Io penso che staresti benissimo con il tuo colore naturale” disse la nuova amica.
Pochi mesi dopo presero casa insieme e lei, prima grazie ad uno sciampo castano caldo intenso, poi senza bisogno di altro, tornò di un bel marrone scuro, il suo.
“Che ti avevo detto?” le diceva Francesca passandole le dita tra i capelli.

domenica 7 ottobre 2007

Giorno senza tempo

Devo essermi addormentata intorno alle quattro del mattino ma mi sveglio presto, come al solito.Non sono a casa mia, strano.Non riconoscere un posto appena svegli è una sensazione frequente, ma in questo caso proprio non sono nel mio letto.Resto un po' indecisa sul da farsi. Normalmente, dopo vari stiracchiamenti, mi sento costretta a lasciare che la giornata cominci. Di solito, insieme alla coscienza, arriva anche l'ansia: devo alzarmi, muovermi.In questo letto caldo però si sta bene. Mi muovo e sento sulla mia pelle, leggermente sudata, un'altra più fresca; non sono sola.Lui dorme ancora, pacifico.I miei pensieri cominciano a rumoreggiare e distraggono un po' il suo sonno, lui si gira e mi abbraccia, mi tira con la gamba destra sotto di sé e si abbandona a peso morto.Non sopporto rimanere a letto quando ormai sono sveglia, ma mi sento dominata dalla volontà che anche dormendo quest'uomo esercita su di me. La accetto in modo totalmente incondizionato: non mi posso muovere o rischio di svegliarlo.Un po' di voglia di interrompere il suo sonno e sostituirlo con le mie chiacchiere ce l'ho, ma subito cambio idea. Chissà che sensazione gli farebbero, di prima mattina, le mie elucubrazioni. Lo sfioro e mi accorgo che ha una lieve erezione.Mi immobilizzo, accoccolata sotto di lui, cercando di non respirare forte.Da fuori filtra un po' di luce.Cerco di scivolare di nuovo nel torpore del sonno ma ho caldo e devo fare pipì. Resisto.Stare nascosta qui mi piace, anche se gli equilibri precari della mia vita si ripresenteranno a breve, puntuali. Mi assalgono pensieri di problemi assurdi, alcuni me l'invento di sana pianta. Dormire. Lo desidero tanto, ma non ci riesco, mi mette in stato d'agitazione. Avrei voglia di accarezzarlo, ma non voglio assolutamente che si svegli.Lui è un buon esempio di rilassatezza. Mi fa impazzire, io sono sempre sul chi va là, mi controllo di continuo, forse per paura di scapparmi via.Basta, mi alzo.I piedi, a contatto col pavimento freddo, mi si ghiacciano in due secondi. Apro piano la porta di questo nido surriscaldato che odora di notte e la richiudo dietro di me, cercando di fare meno rumore possibile.La cucina sembra invasa di luce, rispetto al buio che c'è di là.Vado in bagno e mi siedo sulla tazza del cesso con le gambe penzoloni, guardo la porta che non si chiude bene.Ho la bocca secca e le gambe intorpidite, ieri troppo vino e.All'improvviso tutto mi risale in mente, poi mi va nella pancia.“Che meraviglia” mi dico, ripassando a memoria un paio di minuti.Mi guardo allo specchio, ho qualche livido e un po' di sperma si è seccato sulla pancia; lo gratto via con l'unghia.Resto sotto la doccia almeno venti minuti, riempio il bagnetto di fumo e condensa, mi asciugo, non trovo il phon, mi sembra così strano essere qui.Resto in giro perplessa, con i capelli bagnati mi viene subito freddo, non so bene che ho voglia di fare. Quasi quasi vado via, tanto lui dorme.Schiaccio il naso contro la finestra, freddo umido per niente invitante, il clima di questa città non aiuta la mia cronica indecisione.Faccio un tè, scelgo qualche fumetto tra quelli sparsi in giro, metto una X su quelle due o tre cose che potrei/dovrei fare e scappo di nuovo a letto.Non voglio che oggi cominci.La luce che entra dalla finestra è troppo lieve per leggere, io non mi azzardo ad accendere quella in camera.Guardo ogni tanto i capelli chiari e sottili che spuntano dalle lenzuola. Quest'uomo ha un sonno profondissimo, mi affascina, è pieno di movimenti e suoni; sogna tanto. Ieri sera prima di addormentarsi ha fatto dei piccoli scatti, come se i muscoli perdessero forza, poi è diventato più freddo.Fuori, rumori della città in movimento; dentro tutto fermo, senza tempo.Appoggio la tazza per terra e scivolo lentamente nel dormiveglia.Quando riapro gli occhi, siamo ancora più intrecciati, gambe e braccia.Mi viene di nuovo voglia.Controllo l'ora sul display verde del videoregistratore, le due passate. Titubante gli sfioro le labbra semiaperte.Lui riemerge dal letargo.“Ciao bambolina” mi dice.Sorrido, il biondo e l'azzurro mi invadono gli occhi.Sono contenta di aver resistito all'istinto di andare via prima che si svegliasse.Vicinissimi, occhi negli occhi, lascio che la mia bocca un po' gonfia si deformi nella sua; solletico di baffi.Faccio scorrere una mano nel caldo del letto, tutto è come l'ho lasciato. Cominciamo piano ad accarezzarci.Penso alle persone fuori, a lavoro da ore, e noi ci rotoliamo nelle lenzuola. Quasi quasi mi vergogno.Mi viene in bocca e sulla faccia, “Brava bimba mia”, dice.Mi abbraccia, con un fazzoletto bagnato mi toglie tutto l'umido che ho addosso e mi trascina sotto le coperte, mi accarezza i capelli.Sento che potrei addormentarmi di nuovo.Posso?Davvero?Mi innervosisco, muovo le gambe, non so se ci riesco.“Dormi un altro po'”, dice lui con la voce già di sonno, infatti si riaddormenta subito.Se potessi riposarmi anch'io così, svegliarmi lenta e stupita, caduta sul letto da chissà che posti.Sospiro, non c'è più granché da fare, la giornata è quasi andata, devo convincermi di questo, magari riuscire a esserne contenta.Invece sono impaziente.Faccio per alzarmi, lui mugugna qualcosa, forse “Dove vai”, poi più chiaramente, “Ho fame”.Sorrido di nuovo. Ha ragione, anch'io ho fame.Mentre mi faccio la seconda doccia lui prepara la colazione, si è offerto, dice che vuole cucinare per me, nutrirmi.La pausa pranzo in realtà è finita da un pezzo, ma almeno così torno un po' in ordine con le azioni della giornata e non mi preoccupo troppo.A lui gli salta un appuntamento in serata, sono felice o no?Non so decidere.“Fa' una canna, va”, dice un po' scazzato ma sorridente.Non lo conosco bene, non mi sembra da lui, ma mi piace, è proprio quello che ci vuole.Chiacchieriamo, come fossimo tra il primo e il secondo tempo di un film.È andata finalmente.Questa giornata non è cominciata affatto.La luce diminuisce. Tra un po' sarà ancora notte.Noi torniamo a letto.

venerdì 5 ottobre 2007

Black out

In: rivista inchiostro 2005

La corrente è saltata proprio all’inizio del secondo tempo.
L’immagine sullo schermo ha tremolato un po’, si è sgranata e poi è sparita del tutto.
Giada ha emesso uno strilletto ridicolo, come se qualcuno avesse aperto la porta del bagno mentre lei era seduta al cesso. Poi, nel buio, hanno gridato tutti.
“Non voglio morire in un attentato” ho pensato, “Non voglio” ho mormorato tra gli strilli. Mi ha preso un attimo di rabbia irrazionale e indistinta contro Bin Laden, Bush, tutta la categoria dei kamikaze, la guerra, la sfottuta società, il mondo intero. “Non me ne importa niente” ho pensato, “Non voglio morire per colpa loro”.
L’aereo ha perso quota, come se una gigantesca mano, Dio? Il Fato? la Sfiga?, ci premesse dall’alto. La pressione mi è scoppiata nelle orecchie come una bolla di sapone, ho digrignato i denti cercando di fare una compressione di resistenza tra naso e gola ed ho avvertito uno strano dolore nella mascella irrigidita. Un leggero ronzio interno ha preso il sopravvento su strilli pianti e imprecazioni generali, avvolgendomi tutta.
Giada era accucciata nel suo posto, sembrava piccola e indifesa e per lo meno non gridava presa dal panico come tutti gli altri. Piangeva in silenzio. Ho apprezzato la dignità del suo terrore stranamente taciturno, come il mio.
“E’ la fine” mi sono detta.
A un certo punto le ho preso la mano e gliel’ho stretta. Mi sono stupita di me stessa, se non fossi stata in questa situazione niente e nessuno mi avrebbe convinto a fare una cosa del genere. E’ la classica buona azione che non farei mai, prendere la mano di un’estranea per darle conforto. Mi è sembrato un gesto falso e meschino, ma l’ho fatto lo stesso, provando una specie di ribrezzo per me stessa, come se avessi avallato un sentimento puerile, una reazione stupida. Lo facevo più per lei che per me e questo, anche se non volevo, ci avrebbe legato per sempre, “Che importa”, ho pensato “sto morendo”.

L’oscuro presagio provato all’imbarco non era stata una semplice paranoia della mia mente. Se l’uomo fosse stato progettato per volare avrei avuto un paio d’alette trasparenti dietro la schiena avevo pensato mentre salivo la scala del gigantesco mostro. Mi sosterrete fin lì? domandavo guardando gli alettoni intensamente, scalino dopo scalino.
Il comandante, all’entrata, mi ha sorriso incoraggiante e sicuro ed io ho ricambiato con una smorfia.
Il posto era vicino al finestrino. Avrei preferito corridoio, per non dover guardare fuori.
Dal momento che quello accanto a me era vuoto ho chiesto a una hostess se potevo cambiare, “Mi scusi” ho detto alla prima che mi è passata vicino, indicando la poltrona vuota, “Posso sedermi qui?”.
Mi ha guardato come se non capisse.
Vergognandomi un po’ ho cercato di spiegare “…è che…non vorrei stare vicino al finestrino”. Lo so che è ridicolo, ma ci ho provato lo stesso.
“Questo è prenotato” fa lei con un’aria divertita. Gli avrei voluto togliere quello stupido sorriso a furia di schiaffi, fino ad arrossargli la faccia pallida, da nordica che non vede il sole da anni, e quando lo incontra diventa del colore dei maialini da latte.
“Doveva chiederlo quando ha fatto il biglietto” infierisce lei.
Mi sono stretta la cintura fin quasi a non respirare, prima ancora che lo dicesse la voce. Poi l’ho allentata un po’ perché mi bucava la pancia borbottante.
Una donna piccolina, di mezza età, con un tailleur color malva, è arrivata tutta trafelata. Io ho tolto il cappotto che avevo poggiato al suo posto. Lei mi ha ringraziato, ha aggiunto “Scusami” come se fosse colpa sua.
Due assistenti di volo hanno cominciato a fare quelle mosse ridicole per indicare l’uscita di sicurezza, la posizione dei giubbotti, l’uso delle mascherine.
Davanti agli occhi mi è arrivata la fotografia di corpi spappolati tra i rottami, una scarpa abbandonata per terra, vestiti bruciacchiati, come ogni disastro aereo che si rispetti, “Smettila” mi sono detta.
Dietro una tendina, infondo, qualcuno apriva e chiudeva sportelli per rifornire il carrello di succhi the caffè.
“Va in vacanza?” mi ha domandato la vicina interrompendo le mie macabre visioni, mentre si sistemava nella poltroncina stretta dei voli economici.
Non avevo voglia di rispondere e ho solo annuito col capo.
“Io invece vado a trovare mio figlio” mi ha informato ciarliera, “Vive lì per lavoro, ha avuto un bambino”, era contenta, si vedeva.
“Ah si?” ho detto con aria distratta, desiderando ardentemente che stesse zitta.
“Si si” ha continuato lei entusiasta “In realtà una bimba, si chiama Giada, come me!” ha specificato orgogliosa. Aveva una voce sottile e squillante, come il riflesso del sole sulla carlinga.
Io, il mio nome, non gliel’ho detto. La signora Giada voleva parlare e a meno che non le avessi espressamente chiesto di star zitta, a rischio di sembrare maleducata, me la sarei dovuta sorbire per tutto il viaggio, quindi ho pensato di non darle corda. Ho pensato “Non diventerò mai così” e un attimo dopo “Così come?”.
“Sei sola?” ha chiesto lei incuriosita e materna.
“Mi aspettano” ho mormorato laconica. Il mio ragazzo era lì per lavoro, in un villaggio turistico, ma non avevo voglia di stare a dirlo a una perfetta sconosciuta.
La voce del comandante ci ha avvertito che non c’erano perturbazioni sulla nostra tratta e ci ha augurato un buon volo.
Quando è iniziato il film ho fatto finta di volerlo guardare, sperando che questo bastasse a farle capire che non avevo voglia di chiacchiere di circostanza.
Poi è cominciato l’incubo.
Giada, quando le ho preso la mano, mi ha guardato ed io ho pensato alla sua nipotina, l’ho immaginata bionda come lei, con un espressione furbetta, bellissima.
L’idea di avere un bambino non mi aveva mai sfiorato la mente, invece lei aveva addirittura una nipotina, anche se non l’avrebbe mai vista.
Poi, vai a spiegare perché, nel panico generale ho pensato a Luca, il fidanzatino che avevo al liceo, “Che fine avrà fatto” mi sono domandata, ricordandomi quanto mi piaceva. Ho capito in quel momento che non ci volevo andare, in Egitto, i villaggi vacanza mi fanno schifo. Invece avrei voluto cercare Luca, dirgli quanto mi era piaciuto, sapere come stava adesso. Non mi ricordavo nemmeno il motivo per cui la nostra amicizia era finita. Ho immaginato il mio ragazzo che aspettava in un aeroporto egiziano un aereo che non sarebbe atterrato e mi è stato chiaro, come una folgorazione “Non voglio stare con lui. basta”.

Un attimo dopo l’aereo ha ripreso quota, le luci si sono riaccese, il film è ripartito come se qualcuno avesse tolto la pausa. Come se niente fosse.
Non so quanto è durato, tre secondi, dieci forse. Il tempo era una spugna gigante che continuava a trattenere i minuti.
Poi la voce del comandante disse attraverso i microfoni di stare tranquilli. Avevamo incontrato una perturbazione che probabilmente sarebbe aumentata, quindi avrebbe cominciato un inversione di rotta per tornare indietro. Il volo sarebbe stato posticipato.
Ho guardato le nostre mani intrecciate “Comunque io mi chiamo Simona” ho detto alla signora Giada, sorridendo.



(“Inchiostro”, Feb/Apr 2004)

martedì 2 ottobre 2007

Come un motore a scoppio

“Guarda che se partecipi le stracci tutte” disse Mara con aria assolutamente sicura e tono neutro, senza alcuna inflessione critica, anzi, cercando di nascondere il fatto che, sotto sotto, nell’intimo, non lo avrebbe mai ammesso apertamente con nessuno ma era così: li riteneva volgari.
Le dava fastidio un uomo, figuriamoci una donna.
“Sicuro che vinci, al cento per cento” l’assecondò Franca, “Ci devi andare assolutamente e poi te l’immagini quelle che si presenteranno? Tu ha stoffa, fidati”.
In effetti, la prima volta che Mara l’aveva sentita, fu quella discrepanza che più di tutto la colpì, più della forza modulata, più della roboante portata.
Era così carina, biondina, sottile e timidissima. Insospettabile insomma, una da twin set beige e ballerine, per capirci. Si chiamava pure Emy, un nome così dolce, era la contrazione di Emiliana e quando lei lo spiegava con la sua vocina sottile era adorabile. Eppure, eppure, Emy faceva dei rutti così paurosamente potenti, imponenti e rumorosi, che anche quando erano in casa solo loro tre, nonostante ormai sapesse che era lei l’artefice di quei tuoni, le veniva da esclamare“Che cazzo è?”. Non si capacitava “Ma se mangi le stesse cose nostre” diceva.
Emy sosteneva che fosse la gastrite, problema di cui Mara aveva sempre sofferto ma che non le aveva mai dato quel tipo di effetto. Diceva che non ci poteva fare niente, ma a Mara, che per ottenere qualche risultato decente doveva bere decilitri e decilitri di coca cola appena stappata, quelle dimostrazioni quasi virili di naturalezza gastrointestinale in un corpo così minimo sembrava una magia, e il leggero disgusto che provava ogni volta la faceva sentire borghese, “Ma come, non sai ruttare?, poverina, è una tale liberazione…”.
Glielo avevano spiegato talmente tante volte “Fai un piccolo respiro, ingoia l’aria come se fosse un sorso d’acqua, spingi giù, blocca a metà sterno e con un colpo secco di glottide spara fuori” ma niente, le usciva solo un rumore provocato dallo sfregamento delle corde vocali, al massimo un conato di vomito.
Emy, invece, ruttava come il lavandino sgorgato con l’idraulico liquido, faceva paura, ogni volta Mara e Franca si guardavano stupefatte mentre lei diceva “Scusate, si è sentito molto?”.
Riusciva a cantare addirittura, solo cosette semplici però; raccontava orgogliosa che il padre, a Natale, glielo chiedeva sempre, e lei modulava il gingle di “Bauli ba ba ba bauli” a suon di rutti.
Mara, che a Natale al massimo aveva recitato qualche poesia, la guardava sempre stupefatta.
Poi venne fuori il concorso. Per sole donne.
“Guarda che si vincono soldi” stava dicendo Franca.
La gara ci sarebbe stata il giorno dopo, e tutte e due si erano messe nelle orecchie dalla settimana prima dicendo che doveva andarci assolutamente, che avrebbe vinto di sicuro e che sarebbe stato divertente. Mara su quest’ultimo punto non era tanto sicura, ma lo tenne per se.
“Però voi mi accompagnate” chiese con voce lamentosa Emy, cedendo.
Mara sospettava che avrebbe avuto qualche problema di adattamento in quel festival di rutti, ma non disse niente.
Il giorno dopo si prepararono, Emy si vestì particolarmente carina, Franca comprò una dozzina di lattine di birra per preparare la concorrente e tutte tre si sistemarono in macchina. Arrivarono lì che Emy era ormai alla quinta lattina, carica come un motore a scoppio. Entrarono. Una specie di bolgia dantesca, magliette dei Mothored e bandiere americane ovunque, gli occhi di un centinaio di donne coi chiodi neri e le code tirate si girarono a guardarle. Un piccolo palco infondo aspettava le candidate.
Avanzarono di pochi passi sotto gli sguardi non proprio amichevoli e in quel momento Emy esplose, non riuscendo a tenersi.
Il suono durò buoni dieci secondi e rimbombò nel grande spazio; seguì un silenzio assoluto.
Poi tutte, dico tutte, cominciarono ad applaudire. Fu un tripudio pazzesco.
Emy i soldi non li vinse per aver bruciato la sua cartuccia prima del via, ma fu eletta reginetta della serata e tornò a casa soddisfatta come poche volte nella vita.