venerdì 30 novembre 2007

Aylynn

Questo può sembrare il racconto di un viaggio, in realtà è l’incredibile storia di come Aylynn sia il mio alter-ego quando divento troppo buffa per essere vera.

Sono partita il 12 Agosto, come al solito all’ultimo momento, col progetto di arrivare dritta fino a Parigi e raggiungere poi Ste e Manu che facevano l’erasmus lì.
Io volevo assolutamente passare per la Bretagna, magari arrivare fino a Brest la rocciosa, in cerca di streghe celtiche e cerchi magici.
Il treno per la capitale francese viaggiava di notte. Sistemo quattro sediolini stesi a mo’ di letto a una piazza e mezzo poi cerco di chiamare i miei amici, ma nessuno dei due risponde. Gli mando degli sms proponendo di raggiungermi in Bretagna tra 4-5 giorni. Poi mi addormento e faccio un sogno:
Sto guardando una discesa polverosa a picco sul mare, una specie di ripida Y capovolta. Nell’acqua c’è un’altalena costruita con travi di legno e dei bimbi ci giocano intorno. Musica di flauti in lontananza. Un grillo enorme salta davanti a me e io lo seguo. Quando mi fermo si ferma anche lui, gira la testa e mi guarda interrogativo. Mi aspetta. Poi si avvicina un tipo alto e dinoccolato con una mascherina da aviatore coi vetri a fondo di bottiglia, pelato e con ai lobi dei cerchi metallici del diametro di un paio di cm, come quelle tribù africane. E’ coperto di tatuaggi per metà del corpo ed è’ decisamente brutto. Dietro le lenti, però, ha uno sguardo dolce e amichevole. In ogni caso io mi fido. Si toglie un anello dall’orecchio e io gli infilo il dito nel lobo sbrindellato, rido e mi sento invincibile. Poi mi accorgo che in spiaggia ci sono Stefano e Manu che fanno il bagno e mi salutano con la mano.
Il gigante dice “Bene e Male non esistono in assoluto. Non perdere tempo cercando d’esser buona, cerca piuttosto di essere giusta”. Il grillo mi guarda e mi sorride.
Mi sveglio un po’ stranita nello scompartimento vuoto. “I sogni”, penso.
Accendo il cellulare e mi arriva un messaggino. I miei amici, appena sognati, mi rispondono. Si sono fatti contagiare dalla mia voglia d’avventura e mi mandano una frase oscura, quasi cifrata: “ci vediamo a Huelgoat l’8/8 alle 8”.
A Parigi mi fermo pochissimo. Seduta al tavolino di un bar faccio una veloce consultazione della cartina per vedere dov’è sto paesino. Scopro che è un bosco poco lontano da NOME. Ho circa cinque giorni per gironzolare prima e decido a grandi linee il percorso da fare. Inseguendo i ricordi di maria Antonietta di cui ho appena visto il film vado a VersaillesUel. La coda per entrare al palazzo, però, è infinita, ed io, insofferente, torno immediatamente in stazione e prendo un trenino diretto a Rambouillet. Arrivo lì che è ormai pomeriggio e mi fermo a mangiare in un parco con un laghetto dove ci sono due pesci enormi, pesci gatto credo, hanno entrambi i baffi. Lancio nell’acqua pezzi del panino e loro si fiondano alla velocità della luce. Se mettessi il dito a portata di bocca credo che me lo staccherebbero. Fantastico sulla possibilità di verificare la cosa ma mi fermo un attimo prima, come faccio quasi sempre quando sto per fare una cazzata.
Resto con il dito a pelo d’acqua e una sensazione d’irresponsabilità che non mi dispiace. Rifletto su come spesso basta un piccolo particolare per trasformare la cosa migliore di questo mondo in qualcosa di brutto o pericoloso. Io mi sento sempre vicinissima a questo confine.
Ho con me la tenda, ma a Chartres, che è lì vicino, dovrebbe esserci un ostello, ci arrivo in pullman che è quasi sera.
Vado a fare una passeggiata prima che diventi buio del tutto. Al centro del minuscolo paesello, di fronte alla cattedrale altissima, ho un lieve giramento di testa. Questa chiesa è antichissima, la struttura sembra una ragnatela. Io soffro della sindrome di Stendhal, che in pratica consiste nell’inebetimento di fronte alle opere d’arte. La prima volta successe durante una gita con la scuola. Rimasi quasi un’ora imbambolata davanti al Giudizio Universale, che era appena stato restaurato. Non mi ero accorta che gli altri proseguivano e all’appello in uscita non ero presente. Guardavo l’affresco come se fosse una moderna pubblicità subliminale sul bene e il male. L’azzurro del cielo, grattando via lo sporco di secoli, era brillante come se il colore non fosse ancora asciutto. L’affresco è in parte sul soffitto, costringe ad una posizione innaturale che fa girare la testa perché il sangue non circola e si schiacciano le cervicali. Io rimasi non so quanto tempo col naso in su, la testa leggera, dimenticandomi di tutto, persa nelle nuvole gonfie e nei corpicini ammassati, cercando qualcuno che mi somigliasse. Ero concentrata prevalentemente su inferno e purgatorio, il paradiso era troppo in alto. Un addetto al museo, avvertito dai miei compagni, mi trovò lì e mi riportò al pullman.
Davanti alla chiesa di Chartres mi succede di nuovo e resto a guardare imbambolata le vetrate colorate e trasparenti che la luce da fuori illumina come elettricità. Faccio resistenza allontanandomi camminando all’indietro e piano piano l’austera chiesa smette di avere potere su di me. Mi succede sempre ed è per questo che viaggio. Quando l’incantesimo è finito gironzolo per le vie antiche vicino al fiume. In un negozietto di souvenir compro un inutile scatola di pezzi di vetro, sembrano pietre preziose grezze e giganti.
Prossima tappa Orleans. La storia della pulzella mi ha sempre affascinato, Giovanna bruciata al rogo come una “strega”. Arrivo domenica che è tutto chiuso, per di più è ferragosto e ci sono i turisti. Prendo un treno che costeggia il primo tratto della Loira e mi fermo a Blois, dove monto la tenda in un campeggio stupendo. Lì c’è un castello fatto costruire da Caterina de’Medici, una delle donne più potenti della storia europea, fervente cattolica che conosceva il potere dei veleni, un'altra “strega”. Di fronte al suo castello c’è la casa del mago Hudinì, l’illusionista. Mentre sto lì, indecisa su quale delle due visitare, le sei finestre della casa del mago si spalancano contemporaneamente e sei gigantesche teste di drago sbucano fuori, come se volessero saltarmi addosso. Sobbalzo per lo spavento. Sono automi meccanici del XIX secolo, una casa-orologio.
Allontanandomi noto le code dei draghi, nella parte posteriore della casa, che sguisciano come serpenti luccicanti mentre rientrano nella tana. Alla fine dello show le finestre si richiudono da sole con un tonfo sordo, da casa dell’orrore. “Fenomenale” commento tra me e me.
In un turist point prendo i dépliant di tutti i castelli e ne scelgo uno che sembra quello della Bella Addormentata. All’interno c’è una stanza chiamata delle cinque regine, una di queste è Margherita di Valois, la regina poetessa.
Di fronte al letto a baldacchino c’è un arazzo con fauni silvestri. Uno su cui si fissa la mia attenzione ha in mano un flauto di legno e mi somiglia.
Nel pomeriggio mi avvicino alla costa bretone, il clima comincia a cambiare e l’aria è umida, l’oceano non è lontano.
Arrivo a Carnac stanca morta, mi fermo al primo spiazzo che trovo, vicino ad una spiaggia poco fuori dal paese. Monto la tenda e cerco di trovare per non so quanto tempo una posizione comoda prima di riuscire a chiudere occhio.
La mattina dopo mi sveglio più stanca di prima, esco per sgranchirmi le gambe e mi accorgo di un cartello che la sera prima non avevo visto:




ATTENZIONE
ZONA
INSALUBRE



Cerco di tranquillizzarmi pensando di aver dormito solo vicino a molta melma anche se la spiaggia non ha un aspetto invitante.
In quel momento mi accorgo di una musica che proviene da poco lontano. La conosco, ma non riesco a ricordare quando l’ho già sentita.
E’ un vecchio con un flauto di legno seduto su uno scoglio, in giro non c’è nessuno. Appena mi vede smette di suonare e mi dice qualcosa in una strana lingua, forse dialetto bretone.
Rispondo “Sorry, I don’t understand, non capisco”, ma il vecchio scuote la testa e ricomincia a suonare.
Mi do un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di essere sveglia, alzo di nuovo lo sguardo ed il vecchio è scomparso. Sulla roccia però c’è il flauto.
Io non ho mai suonato uno strumento in vita mia ma questo è un regalo per me, ne sono sicura. E’ legno di palissandro e deve essere antichissimo.
Non so come faccio a sapere queste cose, ma istintivamente lo avvicino alle labbra e comincio a suonare; e bene, devo dire. M’interrompo di scatto, so a malapena il nome delle note e sono totalmente stonata. Che diavolo sta succedendo?
Torno di corsa alla tenda la smonto veloce e mi allontano da li. Trovo finalmente un campeggio e mi sistemo nella prima piazzola libera. Vado subito a fare una doccia che mi rilassa, però comincio ad annoiarmi di stare sola ed in più sono anche spaventata.
Dopo cena mi riaddormento di botto e dormo per quasi due giorni di filato.
Quando mi sveglio mi accorgo di essere stesa su un centimetro d’acqua. Il sacco a pelo è fradicio e la tuta che indosso zuppa. La tenda, evidentemente, non è antipioggia.
Cerco di evitare la broncopolmonite e recupero nello zaino dei vestiti asciutti, poi richiudo la tenda, con le mani tutte molli e raggrinzite. Ho perso il senso del tempo ma credo che il giorno dell’appuntamento con i miei amici sia oggi.
Voglio chiamarli, ma non riesco a trovare il cellulare che era nella tasca laterale della tenda.
Rifaccio tutti i movimenti a ritroso senza risultato, per terra c’è un lago di melma e non ho nessuna speranza di ritrovarlo. Sono completamente isolata ed ho perso i numeri di telefono, che tragedia! Pian piano, però, l’avvilimento si trasforma in una sensazione di libertà. Comincio ad intuire che le risposte ad alcuni dilemmi che mi attanagliano sono nascoste nelle cose che mi stanno succedendo, solo che io non le capisco ancora. Comunque mi decido a fuggire dal campeggio che oramai è diventato una piscina, con le tende e le roulotte che galleggiano a pelo d’acqua.
Controllo sulla cartina la strada per Huelgoat e prendo un pullman turistico che passa di là. L’umore durante il tragitto fa l’altalena tra euforia e terrore.
L’autista si ferma ai margini del bosco, mi scarica e prosegue. Un cartello di legno informa:



Qui vive Merlino
mago delle
trasformazioni





Mi fermo sotto una pensilina ed accendo il fornelletto a gas per fare un tè. C’è una strana aria intorno e per ingannare l’attesa e farmi coraggio, suono il flauto.
Ad un certo punto, dal profondo del bosco, sento una voce di un bambino.
Mi giro a rallentatore, i peli delle braccia si rizzano: ero convinta di essere sola, con me non è sceso nessuno e di quei due neanche l’ombra.
Mi viene incontro una figura magra e leggermente più bassa di me.
Non è affatto un bambino.
I capelli sono lunghi e sottili, gli occhi a mandorla leggermente laterali, gli zigomi appuntiti, la bocca larga e sorridente.
Io resto incantata a guardare quando un colpo di vento ci scompiglia i capelli e scopre le sue orecchie, leggermente a punta.
Mioddio un folletto!
“Aylynn, me ne dai un po’?” dice con tono squillante.
Allungo il braccio per porgerle la tazza, “Scotta” l’avverto.
“Sei venuta all’appuntamento!” esclama l’esserino con voce ambigua. Mi guarda con fare di sfida, nei suoi occhi c’è uno sbrilluccichio divertito.
Come fa a sapere dell’appuntamento?
“Ti stavo aspettando” aggiunge misterioso.
Le nostre dita si sfiorano e mi ricordo all’improvviso il grillo del sogno, poi il fauno sul letto di Margot. Entrambi sono simili alla faccia che mi è di fronte, e devo dire che mi somiglia. Anzi, è identica! Ha anche un flauto uguale al mio, che regge nella mano sinistra.
Sembra di stare allo specchio.
Sorrido, “l’appuntamento eri tu?” domando incongruente.
“Il gigante ha ragione” mi dice, “Non pensare troppo, ascolta tutti, ma decidi da sola e sii sempre te stessa”, poi mi propone “Suoniamo?”.
Annuisco, contenta di mettere alla prova il mio talento appena nato.
Duettiamo nel bosco, come se fossi anch’io una ninfetta che abita lì. Dopo un po’, la mia copia fatata dice “Adesso dammi il regalo”.
Io ho solo un attimo d’imbarazzo, poi recupero dallo zaino le pietre colorate prese a Chartres e gliele do.
“Bellissime” mi dice sognante, “Ma ora devo andare, i miei amici mi stanno aspettando e i tuoi aspettano te”.
Sorride allontanandosi e “Non mi dimenticare” sussurra, prima di sparire nel bosco.

domenica 25 novembre 2007

L'ermafrodito

Lo conobbi d’estate. Lo notai perché mi somigliava; mi faceva pensare all’ermafrodito.L’archetipo del mostro mitologico, diviso in due perché troppo potente, mi ha sempre affascinato. Era diventato pure l’argomento della mia tesi, dal titolo “Maschile, femminile e neutro nel romanzo barocco veneziano di Giuseppe Marini Il Calloandro fedele”.I due protagonisti, Calloandro e la speculare Leonilda, sono eroi duplici, in continua trasformazione, molto annoiati dai cliché di corte.L’intreccio è ingarbugliato, si perde il filo, i maschi si travestono da femmine e viceversa, in una confusa escalation di scambi di ruolo. Nel labirintico romanzo i due si guardano, s’innamorano e si perdono. Dopo rocambolesche peripezie si rincontrano per caso a una giostra, lei indossa un'armatura che non è la sua, lui pure: non si riconoscono. Si fronteggiano, combattono e per poco non s’ammazzano.Il duello simboleggia il pericolo che scaturisce dall’unione delle due metà del prodigioso essere; avevo quasi convinto pure la mia relatrice. I poveri e inconsapevoli innamorati sono parti dello stesso tutto, gemelli siamesi divisi alla nascita, alla perenne ricerca l’uno dell’altra; devono lottare contro la passione, freudianamente parlando contro l’ES, e quindi contro loro stessi, per potersi finalmente ricongiungere. Avrei voluto gridargli “Scopate invece di combattere!”Lui era sicuro di avermi già incontrata, forse a qualche festino, quasi sicuramente sotto l’effetto di una massiccia dose di qualcosa, molto probabilmente pillolette con cuoricini fucsia stampigliati su.“Considerando il mio grado di entropia”, gli risposi citando seria la definizione dell’elettrone attorno al nucleo , “è improbabile, ma non impossibile”. Lui rise in un certo modo, e io pensai “omosessuale”, poi sperai “magari è bi”; l’idea che fosse un semplice etero non mi sfiorò minimamente. Invece dell’armatura, aveva una cinta a placche metalliche zeppa di strass, con un cuore rosso e la scritta I’m sexy di paillettes dorate, che io trovavo orribilmente bella e volevo assolutamente farmi regalare. Era scomposto come un bambino viziato, un dandy, anche se mi accorsi subito che la sua cultura era decisamente pop (nel senso di popular).Aveva una faccia che si poteva felicemente definire da schiaffi, e mai espressione sarebbe risultata più adatta.Mi accorsi subito che l’amica che era con lui mi fissava infastidita.Ci ritrovammo tutti a ballare in un bar sulla spiaggia, e quella che inizialmente era niente altro che una semplice sensazione si rivelò esattamente la pura verità: la donna ci controllava a vista. Lui continuò a non farsi grossi scrupoli, mi guardava di sottecchi e cercava di starmi il più vicino possibile. Quando riusciva a sfuggire la vigilanza ne approfittava per accarezzarmi il collo, mi passava le dita fredde di ghiaccio sulla schiena sudata e poi tornava veloce a concentrarsi sul bicchiere che aveva in mano.Io rabbrividivo di piacere, ma valutando la maggiore massa corporea dell’altra, cercai di allontanarlo rifilandogli di nascosto una serie di pizzicotti.Il tentativo non lo allontanò affatto anzi, sembrò divertirlo. Un paio furono forti come morsi, ma il signorino non fece una piega e rimase nei paraggi.Mi guardai le dita indolenzite e mi accorsi che sotto le unghia c’era del sangue. Alzai gli occhi su di lui e, per un attimo, intravidi la punta lucida e brillante della lingua che gli saettava tra i denti bianchi, come quella di un serpente.Gli piaceva, allo stronzo, e quando lo capì ebbi un lieve giramento di testa.Il mattino seguente, con un'espressione finto-colpevole, un bambino sorpreso con le mani nella marmellata, mi consegnò la cinta, ridotta in sei sette piccoli pezzi.Passai il resto della giornata sempre in compagnia di qualcuno.Lui era in fibrillazione, ma la sua volontà era pari a zero e allontanare il mastino da guardia che si portava dietro come marchio d’infamia non era qualcosa che io volevo o anche solo sarei stata in grado di fare.Venni a sapere che lei non beveva né fumava mai troppo, per non distrarsi e rischiare di perderselo per strada, che aveva più volte malmenato persone e, in definitiva, non aveva un buon carattere.Io faticavo a esercitare il dominio su me stessa, figuriamoci su un altro essere umano.L’infame schiavetto se ne stava tutto il tempo fermo e docile sotto l’ombrellone, legato a un’immaginaria corda lunga non più di una decina di metri. Appena lei si distraeva, però, mi cercava come una droga. Non riusciva a trattenersi; l’idea di un passaggio di mano, una prospettiva nuova e sconosciuta, che lo avrebbe liberato e immediatamente dopo incatenato a un giogo diverso, e quindi più desiderabile, non lo faceva stare nella pelle.Con me non ci aveva mai veramente provato, forse neanche ci sarebbe riuscito, ma aveva imparato a soddisfare le donne senza doverle necessariamente scopare, e scommetto che conosceva altrettanto bene i modi per allettare gli uomini. Con entrambi applicava lo stesso sottile ricatto.Una sera, lucida come un’antropologa che studia la natura umana, gli procurai un graffio lungo e profondo sulla parte destra del torace; fu l’unica volta che gli venne veramente duro.Il giorno dopo il segno rosso faceva bella mostra di sé sul suo petto abbronzato e implume, sembrava un punto esclamativo tremolante e sghimbescio. Passandosi le dita sulla ferita che andava rimarginandosi, lui mi disse con aria sognante “A contatto col mare brucia un casino”. La sua donna, poco lontano, mi guardava con odio. Mi prese un'ansia da giustizia universale e, in una specie di confronto alla mezzogiorno di fuoco, la affrontai, “Perché continui a starci insieme?” le chiesi, rendendomi perfettamente conto che era la domanda più stupida che potessi fare.“Cosa?” sbottò lei infuriata; tutto si aspettava fuorché quel mio tono partecipativo, “Lasciaci in pace” continuò bypassando la mia domanda senza sforzarsi neanche per un secondo di capire.“Cosa?” feci io a mia volta visto che, va bene tutto, ma fino a prova contraria era lui che, a una certa ora della notte, veniva a cercarmi come un cagnolino sbavettante; provai a spiegarglielo, “Guarda che è lui che…”“Lo so ma tu la devi smettere” disse la Kapò senza farmi finire, “sei uguale a lui” continuò con la rabbia che le montava sulla faccia “cattiva e malata”.Lui, protetto dietro le sue spalle, mi guardava adorante. “Ma guardati tu, piuttosto” sbottai fremente, “e non mi dire che è la prima volta perché non ci credo, lo farebbe con chiunque, per lui è un gioco, non lo capisci?”, insistevo per nessun motivo in particolare, solo per avere ragione, forse, “tanto io non lo voglio” continuai sprezzante “ho provato a mandarlo via, ma torna sempre” dissi, con la consapevolezza istantanea che la compagnia malsana cominciava a dare già i suoi frutti bacati.Due lacrimoni le spuntarono inaspettatamente dagli occhi iniettati di sangue, sembrava che parlasse di una povera vittima nelle grinfie malefiche di una mantide tentacolare, “Per farlo smettere non devi fare così…” piagnucolò isterica.“Vuoi darmi tu qualche consiglio? Ci sei riuscita così bene…” risposi insolente, cercando di fargli paura e ritagliandomi la possibilità di andar via in posizione eretta.Mi sembrava di avere davanti un bulldog pronto a saltarmi alla gola, avevo paura a voltarle le spalle, lanciavo veloci occhiate laterali per vedere se arrivava qualcuno, “Te lo puoi tenere” le dissi con l’aria di farle una concessione, mentre mi allontanavo camminando all’indietro come al cospetto di un cardinale.Partì il giorno seguente; lui, vedendomi andar via, guaì come un piccolo cucciolo abbandonato.

Per un attimo

  • In : rivista "Inchiostro" 2004
    Allineo, chiudo, “Premi start” dico. Lui preme e io aspetto… rrrrrrrrrrrrrr fa lo scanner. “Fatto” dice. Riapro, verifico, “Ok, passamene un’altra”. Riallineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr, aspetto… sono ore che lo stiamo facendo. Sul letto c’è n’è ancora un quantitativo impressionante, dentro quelle scatole di latta, quelle dove prima si tenevano i biscotti. Io abbastanza funzionale, ma essenzialmente controvoglia, gli sto facendo un favore e voglio che sia ben chiaro, lui ridotto all’ubbidienza verso di me, forse per la prima volta nella vita. Con la tecnologia ha ancora qualche problema. Col cellulare ad esempio. Lo tiene sempre nel borsello e non lo sente mai. È praticamente inutile che lo porti con sé. Quelle rare volte che risponde poi, anche se legge sul display che sono io, sua figlia, ha sempre un tono serioso, impacciato, come se parlare attraverso quell’aggeggio senza fili gli sembrasse strano, dopotutto. Per questo lo aiuto.Ovviamente ci siamo piuttosto stupiti quando, da un giorno all’altro, quasi a voler fornire la prova della sua buona volontà, si è comprato di tutto: videoregistratore con lettore DVD (con la modifica per leggere i cd dei marocchini), Play Station con gioco di vela per regate immaginarie (ma più che altro per attirare mio fratello e fargli passare più tempo a casa sua), computer pentium 4 con masterizzatore DVD (avendo ormai comprato il videoregistratore/lettore) con annessa stampante Epson a colori e l’altro ieri, per concludere, uno scanner. “Che cazzo se ne farà mai dello scanner” si è chiesto serafico mio fratello quando gliel’ho detto. Ricostruire il passato. Ecco cosa. E io lo sto aiutando. Precisamente quel genere di attività che tanto ama fare una figlia col proprio padre.Ci sono individui che impazziscono per cose di questo tipo, passare su videocassetta tutti i vecchi filmini delle vacanze, sfogliare album con intere generazioni di bambini in grembiule, centinaia e centinaia delle più diverse fasce d’età, tutti coi collettini bianchi e le espressioni buffe, raggruppati in gruppi di venti o trenta, con la maestra seduta davanti o di fianco, quasi sempre con un vestito a fiori e una pettinatura gonfia.Tutto a un tratto si è messo in testa di farlo anche lui. Vuole acquisire sul suo pc nuovo di zecca tutte le foto e le diapositive che ha fatto “Perché tanto ormai chi le vede più le dia… una volta sì, una volta si faceva…”. Intende quand’era giovane. Per un momento me lo immagino seduto al buio sul tappeto del salotto, insieme coi suoi amici. Annamaria con la fila in mezzo e la minigonna, come al solito, Saverio, con ancora i capelli sulla testa, Fulvio con la sempiterna Lucky Strike senza filtro tra le dita (adesso è in Brasile, l’unico che in qualche modo vive da ex sessantottino), la buonanima di Rosaria, poverina, quanto le volevo bene, mi aveva regalato un trenino che suonava i dischi mentre camminava di cui io ero letteralmente terrorizzata; un po’ in disparte mamma, bellissima, che ammicca all’obiettivo della mia fotografia mentale. Tutti insieme a guardare sul muro le immagini dell’ultimo viaggio in Turchia, Iugoslavia, o qualche altro posto che si portava in quegli anni, magari passandosi una canna. Lui era bravo, aveva una Canon nera con teleobiettivo e rullini tassativamente bianco e nero, anche dopo il colore. All’inizio le sviluppava da solo, in un bugigattolo trasformato in camera oscura in cui a stento ci si muoveva. Poi ha smesso di svilupparle, dopo un po’ di farle, alla fine anche di guardarle.Allineo, chiudo, “Premi”. Lui preme. Aspetto… rrrrrrrrrrr aspetto… Fatto. Riapro, controllo. Sto scannerizzando il passato dalle dieci di stamattina e davanti agli occhi, senza soluzione di continuità, mi sono passati: il castello mezzo diroccato di Santa Maria, con la spiaggia semivuota come solo negli anni Cinquanta poteva essere; mia nonna con i capelli nerissimi che sembrano pece, tiene in braccio un bambino piccolo, il suo figliolino morto di tubercolosi; il padre di mio padre, che io neanche me lo ricordo ma dalla faccia mi sarebbe piaciuto poterlo sfruttare un po’, come nonno; mio padre, con i pantaloncini alla zuava, magro e nero come una stecca di liquirizia, poi grande, con la divisa del militare e il cappello a bustina; mia madre, una ragazza carina col mento appuntito, con un vestito con le rouches che le aveva fatto mia nonna; una donna berbera col cerchio rosso sulla fronte e un bambino in braccio, avvolto in uno scialle bianco. Non ci sono foto del matrimonio. Mio padre, dopo la separazione, in un impeto di stupida vendetta, le ha strappate tutte. Credo si sia pentito, anche se non ce lo ha mai confessato. Forse è per questo che si fa tutto ‘sto sbattimento, per espiare. O per sicurezza, dovesse capitargli un altro momento no…Lui ogni tanto commenta qualche foto, dice qualcosa, “Ma non è che tutte ‘ste onde fanno male?”. Io lo guardo quando so che non mi sta guardando. Vorrei finire il prima possibile, le dita cominciano a essere grigie per la polvere e alcune foto sono così consumate che bisogna stare attenti ai bordi. Un’emeroteca casalinga con morti e feriti, facce conosciute cambiate col tempo. Sto per raggiungere il limite massimo di condiscendenza e si avvicina anche l’ora di cena, mio padre va in cucina e torna con un bicchierino di limoncello, “Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede. Tra meno di un paio d’ore sarà un po’ malinconico e un po’ ubriaco, metterà su un disco di Bob Dylan o James Brown e riguarderà il risultato del nostro lavoro. Probabilmente sarà felice, per un attimo.“Io tra un po’ vado” dico timida, sperando di non ferirlo.“Ok”, fa sbrigativo “facciamo questa e poi basta”. Mi passa un ultimo cartoncino, una delle poche foto a colori. Siamo io e lui sul balcone della casa vecchia. Io avrò sì e no cinque anni, un pulloverino rosso e un cappello in testa dello stesso colore. Abbiamo le facce tutte pitturate, lui mi aveva disegnato le schiocche rosse col rossetto e le sopracciglia da clown, io gli avevo fatto una serie di segni neri e irrazionali sulla faccia. Guardo la foto e per un attimo penso che forse volevo disegnargli un teschio in faccia, perché assomiglia a quello, poi mi sento in colpa per il pensiero macabro. “Com’ero piccola” dico allineando la foto al contrario sullo scanner. Chiudo, “Premi” dico. Aspetto… rrrrrrrrrrrrrrr, aspetto. Pixel dopo pixel io e lui compariamo sullo schermo. Nascosta dietro le sue spalle mi commuovo e, per un attimo, sono felice.

giovedì 11 ottobre 2007

Castano caldo intenso

In: "Io allo specchio" sperling & kupfer 2006

Tagliarsi i capelli, cambiargli il colore, aveva per lei, come per tutte le donne, una funzione ben precisa. Costituiva una sorta di avvertimento, come dire chi vuol capire… . Non tutti lo facevano.
Le succedeva sistematicamente ad ogni turnover di fidanzato. Uno la preferiva fatale e lei se li faceva crescere. Dopo un po’ si stufava e se li tagliava cortissimi.
Un giorno, per esempio, si mise con Toni, che l’aveva notata proprio per i capelli corti, ma dopo un po’ fece l’errore di mostrargli una sua foto di quando ce li aveva lunghi, “Eri più bella prima” disse lui. Lei pianse e desiderò non averlo mai fatto, ma non si sarebbe lasciata col precedente, se non lo avesse fatto, e non lo avrebbe conosciuto. Cominciò a farseli ricrescere ma quando tornarono di una lunghezza decente Toni ero già bello e dimenticato, senza mai aver avuto il piacere di cavalcarla tenendola per la coda.
Seguì un periodo di profonda contestazione con l’universo tutto che la portò al gesto estremo della macchinetta. Dopo, le ricrebbero con la riga dal lato sbagliato, per colpa di una vertigine che aveva sulla fronte, e lei neanche immaginava che ci fosse un verso “da donna” e uno no.
Raggiunse il massimo storico col più lungo rapporto della sua vita (due anni e tre mesi). Finì anche quello e, di nuovo a nuca scoperta, preferì per un po’ rapporti sporadici.
Negli intervalli tra uno e l’altro se li colorava; il più frequente, quello che resisteva più a lungo, era il rosso, in variazioni che andavano dal pompeiano alla tonalità menopausa (come la chiamava il padre), passando per un bordò rosso-violaceo. Schiariva e scuriva a secondo degli umori; una volta, per sbaglio, se li ritrovò neri corvini, lucidi lucidi da sembrare una parrucca.
Un periodo si faceva portare, da chiunque andasse a Londra, il Poppyred, introvabile in Italia, un fantastico gel (viola e blu cobalto possibilmente), che colorava qualsiasi elemento, solido o liquido che fosse, in un modo istantaneo e persistente. Lei si faceva questi esperimenti che duravano poche settimane e poi viravano in un argento giallastro orribile, a strisce.
Quando conobbe Francesca la ciclicità di colorazioni e ricrescite le aveva lasciato sulla testa delle bande orizzontali di vario spessore, che facevano invidia alle rocce arenarie più antiche del mondo, la cui età si calcola appunti in base alle stratificazione di materiali diversi, “Io penso che staresti benissimo con il tuo colore naturale” disse la nuova amica.
Pochi mesi dopo presero casa insieme e lei, prima grazie ad uno sciampo castano caldo intenso, poi senza bisogno di altro, tornò di un bel marrone scuro, il suo.
“Che ti avevo detto?” le diceva Francesca passandole le dita tra i capelli.

domenica 7 ottobre 2007

Giorno senza tempo

Devo essermi addormentata intorno alle quattro del mattino ma mi sveglio presto, come al solito.Non sono a casa mia, strano.Non riconoscere un posto appena svegli è una sensazione frequente, ma in questo caso proprio non sono nel mio letto.Resto un po' indecisa sul da farsi. Normalmente, dopo vari stiracchiamenti, mi sento costretta a lasciare che la giornata cominci. Di solito, insieme alla coscienza, arriva anche l'ansia: devo alzarmi, muovermi.In questo letto caldo però si sta bene. Mi muovo e sento sulla mia pelle, leggermente sudata, un'altra più fresca; non sono sola.Lui dorme ancora, pacifico.I miei pensieri cominciano a rumoreggiare e distraggono un po' il suo sonno, lui si gira e mi abbraccia, mi tira con la gamba destra sotto di sé e si abbandona a peso morto.Non sopporto rimanere a letto quando ormai sono sveglia, ma mi sento dominata dalla volontà che anche dormendo quest'uomo esercita su di me. La accetto in modo totalmente incondizionato: non mi posso muovere o rischio di svegliarlo.Un po' di voglia di interrompere il suo sonno e sostituirlo con le mie chiacchiere ce l'ho, ma subito cambio idea. Chissà che sensazione gli farebbero, di prima mattina, le mie elucubrazioni. Lo sfioro e mi accorgo che ha una lieve erezione.Mi immobilizzo, accoccolata sotto di lui, cercando di non respirare forte.Da fuori filtra un po' di luce.Cerco di scivolare di nuovo nel torpore del sonno ma ho caldo e devo fare pipì. Resisto.Stare nascosta qui mi piace, anche se gli equilibri precari della mia vita si ripresenteranno a breve, puntuali. Mi assalgono pensieri di problemi assurdi, alcuni me l'invento di sana pianta. Dormire. Lo desidero tanto, ma non ci riesco, mi mette in stato d'agitazione. Avrei voglia di accarezzarlo, ma non voglio assolutamente che si svegli.Lui è un buon esempio di rilassatezza. Mi fa impazzire, io sono sempre sul chi va là, mi controllo di continuo, forse per paura di scapparmi via.Basta, mi alzo.I piedi, a contatto col pavimento freddo, mi si ghiacciano in due secondi. Apro piano la porta di questo nido surriscaldato che odora di notte e la richiudo dietro di me, cercando di fare meno rumore possibile.La cucina sembra invasa di luce, rispetto al buio che c'è di là.Vado in bagno e mi siedo sulla tazza del cesso con le gambe penzoloni, guardo la porta che non si chiude bene.Ho la bocca secca e le gambe intorpidite, ieri troppo vino e.All'improvviso tutto mi risale in mente, poi mi va nella pancia.“Che meraviglia” mi dico, ripassando a memoria un paio di minuti.Mi guardo allo specchio, ho qualche livido e un po' di sperma si è seccato sulla pancia; lo gratto via con l'unghia.Resto sotto la doccia almeno venti minuti, riempio il bagnetto di fumo e condensa, mi asciugo, non trovo il phon, mi sembra così strano essere qui.Resto in giro perplessa, con i capelli bagnati mi viene subito freddo, non so bene che ho voglia di fare. Quasi quasi vado via, tanto lui dorme.Schiaccio il naso contro la finestra, freddo umido per niente invitante, il clima di questa città non aiuta la mia cronica indecisione.Faccio un tè, scelgo qualche fumetto tra quelli sparsi in giro, metto una X su quelle due o tre cose che potrei/dovrei fare e scappo di nuovo a letto.Non voglio che oggi cominci.La luce che entra dalla finestra è troppo lieve per leggere, io non mi azzardo ad accendere quella in camera.Guardo ogni tanto i capelli chiari e sottili che spuntano dalle lenzuola. Quest'uomo ha un sonno profondissimo, mi affascina, è pieno di movimenti e suoni; sogna tanto. Ieri sera prima di addormentarsi ha fatto dei piccoli scatti, come se i muscoli perdessero forza, poi è diventato più freddo.Fuori, rumori della città in movimento; dentro tutto fermo, senza tempo.Appoggio la tazza per terra e scivolo lentamente nel dormiveglia.Quando riapro gli occhi, siamo ancora più intrecciati, gambe e braccia.Mi viene di nuovo voglia.Controllo l'ora sul display verde del videoregistratore, le due passate. Titubante gli sfioro le labbra semiaperte.Lui riemerge dal letargo.“Ciao bambolina” mi dice.Sorrido, il biondo e l'azzurro mi invadono gli occhi.Sono contenta di aver resistito all'istinto di andare via prima che si svegliasse.Vicinissimi, occhi negli occhi, lascio che la mia bocca un po' gonfia si deformi nella sua; solletico di baffi.Faccio scorrere una mano nel caldo del letto, tutto è come l'ho lasciato. Cominciamo piano ad accarezzarci.Penso alle persone fuori, a lavoro da ore, e noi ci rotoliamo nelle lenzuola. Quasi quasi mi vergogno.Mi viene in bocca e sulla faccia, “Brava bimba mia”, dice.Mi abbraccia, con un fazzoletto bagnato mi toglie tutto l'umido che ho addosso e mi trascina sotto le coperte, mi accarezza i capelli.Sento che potrei addormentarmi di nuovo.Posso?Davvero?Mi innervosisco, muovo le gambe, non so se ci riesco.“Dormi un altro po'”, dice lui con la voce già di sonno, infatti si riaddormenta subito.Se potessi riposarmi anch'io così, svegliarmi lenta e stupita, caduta sul letto da chissà che posti.Sospiro, non c'è più granché da fare, la giornata è quasi andata, devo convincermi di questo, magari riuscire a esserne contenta.Invece sono impaziente.Faccio per alzarmi, lui mugugna qualcosa, forse “Dove vai”, poi più chiaramente, “Ho fame”.Sorrido di nuovo. Ha ragione, anch'io ho fame.Mentre mi faccio la seconda doccia lui prepara la colazione, si è offerto, dice che vuole cucinare per me, nutrirmi.La pausa pranzo in realtà è finita da un pezzo, ma almeno così torno un po' in ordine con le azioni della giornata e non mi preoccupo troppo.A lui gli salta un appuntamento in serata, sono felice o no?Non so decidere.“Fa' una canna, va”, dice un po' scazzato ma sorridente.Non lo conosco bene, non mi sembra da lui, ma mi piace, è proprio quello che ci vuole.Chiacchieriamo, come fossimo tra il primo e il secondo tempo di un film.È andata finalmente.Questa giornata non è cominciata affatto.La luce diminuisce. Tra un po' sarà ancora notte.Noi torniamo a letto.

venerdì 5 ottobre 2007

Black out

In: rivista inchiostro 2005

La corrente è saltata proprio all’inizio del secondo tempo.
L’immagine sullo schermo ha tremolato un po’, si è sgranata e poi è sparita del tutto.
Giada ha emesso uno strilletto ridicolo, come se qualcuno avesse aperto la porta del bagno mentre lei era seduta al cesso. Poi, nel buio, hanno gridato tutti.
“Non voglio morire in un attentato” ho pensato, “Non voglio” ho mormorato tra gli strilli. Mi ha preso un attimo di rabbia irrazionale e indistinta contro Bin Laden, Bush, tutta la categoria dei kamikaze, la guerra, la sfottuta società, il mondo intero. “Non me ne importa niente” ho pensato, “Non voglio morire per colpa loro”.
L’aereo ha perso quota, come se una gigantesca mano, Dio? Il Fato? la Sfiga?, ci premesse dall’alto. La pressione mi è scoppiata nelle orecchie come una bolla di sapone, ho digrignato i denti cercando di fare una compressione di resistenza tra naso e gola ed ho avvertito uno strano dolore nella mascella irrigidita. Un leggero ronzio interno ha preso il sopravvento su strilli pianti e imprecazioni generali, avvolgendomi tutta.
Giada era accucciata nel suo posto, sembrava piccola e indifesa e per lo meno non gridava presa dal panico come tutti gli altri. Piangeva in silenzio. Ho apprezzato la dignità del suo terrore stranamente taciturno, come il mio.
“E’ la fine” mi sono detta.
A un certo punto le ho preso la mano e gliel’ho stretta. Mi sono stupita di me stessa, se non fossi stata in questa situazione niente e nessuno mi avrebbe convinto a fare una cosa del genere. E’ la classica buona azione che non farei mai, prendere la mano di un’estranea per darle conforto. Mi è sembrato un gesto falso e meschino, ma l’ho fatto lo stesso, provando una specie di ribrezzo per me stessa, come se avessi avallato un sentimento puerile, una reazione stupida. Lo facevo più per lei che per me e questo, anche se non volevo, ci avrebbe legato per sempre, “Che importa”, ho pensato “sto morendo”.

L’oscuro presagio provato all’imbarco non era stata una semplice paranoia della mia mente. Se l’uomo fosse stato progettato per volare avrei avuto un paio d’alette trasparenti dietro la schiena avevo pensato mentre salivo la scala del gigantesco mostro. Mi sosterrete fin lì? domandavo guardando gli alettoni intensamente, scalino dopo scalino.
Il comandante, all’entrata, mi ha sorriso incoraggiante e sicuro ed io ho ricambiato con una smorfia.
Il posto era vicino al finestrino. Avrei preferito corridoio, per non dover guardare fuori.
Dal momento che quello accanto a me era vuoto ho chiesto a una hostess se potevo cambiare, “Mi scusi” ho detto alla prima che mi è passata vicino, indicando la poltrona vuota, “Posso sedermi qui?”.
Mi ha guardato come se non capisse.
Vergognandomi un po’ ho cercato di spiegare “…è che…non vorrei stare vicino al finestrino”. Lo so che è ridicolo, ma ci ho provato lo stesso.
“Questo è prenotato” fa lei con un’aria divertita. Gli avrei voluto togliere quello stupido sorriso a furia di schiaffi, fino ad arrossargli la faccia pallida, da nordica che non vede il sole da anni, e quando lo incontra diventa del colore dei maialini da latte.
“Doveva chiederlo quando ha fatto il biglietto” infierisce lei.
Mi sono stretta la cintura fin quasi a non respirare, prima ancora che lo dicesse la voce. Poi l’ho allentata un po’ perché mi bucava la pancia borbottante.
Una donna piccolina, di mezza età, con un tailleur color malva, è arrivata tutta trafelata. Io ho tolto il cappotto che avevo poggiato al suo posto. Lei mi ha ringraziato, ha aggiunto “Scusami” come se fosse colpa sua.
Due assistenti di volo hanno cominciato a fare quelle mosse ridicole per indicare l’uscita di sicurezza, la posizione dei giubbotti, l’uso delle mascherine.
Davanti agli occhi mi è arrivata la fotografia di corpi spappolati tra i rottami, una scarpa abbandonata per terra, vestiti bruciacchiati, come ogni disastro aereo che si rispetti, “Smettila” mi sono detta.
Dietro una tendina, infondo, qualcuno apriva e chiudeva sportelli per rifornire il carrello di succhi the caffè.
“Va in vacanza?” mi ha domandato la vicina interrompendo le mie macabre visioni, mentre si sistemava nella poltroncina stretta dei voli economici.
Non avevo voglia di rispondere e ho solo annuito col capo.
“Io invece vado a trovare mio figlio” mi ha informato ciarliera, “Vive lì per lavoro, ha avuto un bambino”, era contenta, si vedeva.
“Ah si?” ho detto con aria distratta, desiderando ardentemente che stesse zitta.
“Si si” ha continuato lei entusiasta “In realtà una bimba, si chiama Giada, come me!” ha specificato orgogliosa. Aveva una voce sottile e squillante, come il riflesso del sole sulla carlinga.
Io, il mio nome, non gliel’ho detto. La signora Giada voleva parlare e a meno che non le avessi espressamente chiesto di star zitta, a rischio di sembrare maleducata, me la sarei dovuta sorbire per tutto il viaggio, quindi ho pensato di non darle corda. Ho pensato “Non diventerò mai così” e un attimo dopo “Così come?”.
“Sei sola?” ha chiesto lei incuriosita e materna.
“Mi aspettano” ho mormorato laconica. Il mio ragazzo era lì per lavoro, in un villaggio turistico, ma non avevo voglia di stare a dirlo a una perfetta sconosciuta.
La voce del comandante ci ha avvertito che non c’erano perturbazioni sulla nostra tratta e ci ha augurato un buon volo.
Quando è iniziato il film ho fatto finta di volerlo guardare, sperando che questo bastasse a farle capire che non avevo voglia di chiacchiere di circostanza.
Poi è cominciato l’incubo.
Giada, quando le ho preso la mano, mi ha guardato ed io ho pensato alla sua nipotina, l’ho immaginata bionda come lei, con un espressione furbetta, bellissima.
L’idea di avere un bambino non mi aveva mai sfiorato la mente, invece lei aveva addirittura una nipotina, anche se non l’avrebbe mai vista.
Poi, vai a spiegare perché, nel panico generale ho pensato a Luca, il fidanzatino che avevo al liceo, “Che fine avrà fatto” mi sono domandata, ricordandomi quanto mi piaceva. Ho capito in quel momento che non ci volevo andare, in Egitto, i villaggi vacanza mi fanno schifo. Invece avrei voluto cercare Luca, dirgli quanto mi era piaciuto, sapere come stava adesso. Non mi ricordavo nemmeno il motivo per cui la nostra amicizia era finita. Ho immaginato il mio ragazzo che aspettava in un aeroporto egiziano un aereo che non sarebbe atterrato e mi è stato chiaro, come una folgorazione “Non voglio stare con lui. basta”.

Un attimo dopo l’aereo ha ripreso quota, le luci si sono riaccese, il film è ripartito come se qualcuno avesse tolto la pausa. Come se niente fosse.
Non so quanto è durato, tre secondi, dieci forse. Il tempo era una spugna gigante che continuava a trattenere i minuti.
Poi la voce del comandante disse attraverso i microfoni di stare tranquilli. Avevamo incontrato una perturbazione che probabilmente sarebbe aumentata, quindi avrebbe cominciato un inversione di rotta per tornare indietro. Il volo sarebbe stato posticipato.
Ho guardato le nostre mani intrecciate “Comunque io mi chiamo Simona” ho detto alla signora Giada, sorridendo.



(“Inchiostro”, Feb/Apr 2004)

martedì 2 ottobre 2007

Come un motore a scoppio

“Guarda che se partecipi le stracci tutte” disse Mara con aria assolutamente sicura e tono neutro, senza alcuna inflessione critica, anzi, cercando di nascondere il fatto che, sotto sotto, nell’intimo, non lo avrebbe mai ammesso apertamente con nessuno ma era così: li riteneva volgari.
Le dava fastidio un uomo, figuriamoci una donna.
“Sicuro che vinci, al cento per cento” l’assecondò Franca, “Ci devi andare assolutamente e poi te l’immagini quelle che si presenteranno? Tu ha stoffa, fidati”.
In effetti, la prima volta che Mara l’aveva sentita, fu quella discrepanza che più di tutto la colpì, più della forza modulata, più della roboante portata.
Era così carina, biondina, sottile e timidissima. Insospettabile insomma, una da twin set beige e ballerine, per capirci. Si chiamava pure Emy, un nome così dolce, era la contrazione di Emiliana e quando lei lo spiegava con la sua vocina sottile era adorabile. Eppure, eppure, Emy faceva dei rutti così paurosamente potenti, imponenti e rumorosi, che anche quando erano in casa solo loro tre, nonostante ormai sapesse che era lei l’artefice di quei tuoni, le veniva da esclamare“Che cazzo è?”. Non si capacitava “Ma se mangi le stesse cose nostre” diceva.
Emy sosteneva che fosse la gastrite, problema di cui Mara aveva sempre sofferto ma che non le aveva mai dato quel tipo di effetto. Diceva che non ci poteva fare niente, ma a Mara, che per ottenere qualche risultato decente doveva bere decilitri e decilitri di coca cola appena stappata, quelle dimostrazioni quasi virili di naturalezza gastrointestinale in un corpo così minimo sembrava una magia, e il leggero disgusto che provava ogni volta la faceva sentire borghese, “Ma come, non sai ruttare?, poverina, è una tale liberazione…”.
Glielo avevano spiegato talmente tante volte “Fai un piccolo respiro, ingoia l’aria come se fosse un sorso d’acqua, spingi giù, blocca a metà sterno e con un colpo secco di glottide spara fuori” ma niente, le usciva solo un rumore provocato dallo sfregamento delle corde vocali, al massimo un conato di vomito.
Emy, invece, ruttava come il lavandino sgorgato con l’idraulico liquido, faceva paura, ogni volta Mara e Franca si guardavano stupefatte mentre lei diceva “Scusate, si è sentito molto?”.
Riusciva a cantare addirittura, solo cosette semplici però; raccontava orgogliosa che il padre, a Natale, glielo chiedeva sempre, e lei modulava il gingle di “Bauli ba ba ba bauli” a suon di rutti.
Mara, che a Natale al massimo aveva recitato qualche poesia, la guardava sempre stupefatta.
Poi venne fuori il concorso. Per sole donne.
“Guarda che si vincono soldi” stava dicendo Franca.
La gara ci sarebbe stata il giorno dopo, e tutte e due si erano messe nelle orecchie dalla settimana prima dicendo che doveva andarci assolutamente, che avrebbe vinto di sicuro e che sarebbe stato divertente. Mara su quest’ultimo punto non era tanto sicura, ma lo tenne per se.
“Però voi mi accompagnate” chiese con voce lamentosa Emy, cedendo.
Mara sospettava che avrebbe avuto qualche problema di adattamento in quel festival di rutti, ma non disse niente.
Il giorno dopo si prepararono, Emy si vestì particolarmente carina, Franca comprò una dozzina di lattine di birra per preparare la concorrente e tutte tre si sistemarono in macchina. Arrivarono lì che Emy era ormai alla quinta lattina, carica come un motore a scoppio. Entrarono. Una specie di bolgia dantesca, magliette dei Mothored e bandiere americane ovunque, gli occhi di un centinaio di donne coi chiodi neri e le code tirate si girarono a guardarle. Un piccolo palco infondo aspettava le candidate.
Avanzarono di pochi passi sotto gli sguardi non proprio amichevoli e in quel momento Emy esplose, non riuscendo a tenersi.
Il suono durò buoni dieci secondi e rimbombò nel grande spazio; seguì un silenzio assoluto.
Poi tutte, dico tutte, cominciarono ad applaudire. Fu un tripudio pazzesco.
Emy i soldi non li vinse per aver bruciato la sua cartuccia prima del via, ma fu eletta reginetta della serata e tornò a casa soddisfatta come poche volte nella vita.

martedì 25 settembre 2007

Gli occhi più azzurri

Napoli, 1947.
I binari di piazza Garibaldi sono ricoperti di macerie, le rotaie distrutte dai bombardamenti, i detriti accumulati negli angoli a formare colline compatte e aride. Dopo la fine della guerra solo una parte della ferrovia è stata ripristinata, e due binari funzionanti assicurano alcune corse al giorno.

E’ ancora buio, ma la stazione è già piena di gente.
Il convoglio che deve partire ha un carico piuttosto singolare: centinaia di bambini, scugnizzi per lo più, maschi e femmine dai sei ai dodici anni.
Paola è una di loro e di anni ne ha quasi sette, però ne dimostra di meno, tutta imbacuccata com’è nel cappotto troppo grande che le hanno dato le donne del Comitato. Si stropiccia gli occhi chiarissimi con le manine sporche lasciandosi due strisce nere sulla faccia smunta. “Tengo freddo ma’” dice per l’ennesima volta, tirando la gonna della madre che alza gli occhi al cielo, ma poi se la carica in braccio, coprendola col suo scialle. A lei il freddo si è depositato così infondo alle ossa che quasi non lo sente più. Si sistema la bimba al collo trattenendo una smorfia di dolore. I piedi, i piedi sono una piaga, a ogni passo sembra che decine di spilli si ficchino sotto le piante; “Fa’ la brava a mammà, su’” dice cercando di consolarla, “mo ti portano a Modena, ti danno il latte, il pane…”, continua cantilenante. Paola quella storia la sa a memoria, la mamma gliela ripete da un mese come fosse una favola.
Sprofonda la testa nello scialle, cerca quell’ odore familiare che sua madre ha sul collo, all’attaccatura dei capelli, un misto di canfora e limone che usa per sciacquarsi i capelli al posto del sapone che non c’è mai.
Michele cammina accanto a loro tutto intrizzito e silenzioso. I capelli rapati a zero per colpa dei pidocchi stanno ricrescendo come vellutino. Paola lo guarda. A vederlo ora, tutto spelacchiato, le dispiace di averlo preso in giro nei giorni scorsi. Lui continua a tirare su col naso, ma il muco ormai ha formato una scrosta cristallizzata attorno alla bocca. Si pulisce con un vecchio fazzoletto che tiene nella manica del cappotto, ma la crosta si riforma sempre.
Gaetano, un giovane uomo magro magro, con buffi occhialetti da intellettuale, comincia a fare l’appello: “…Capuano Mario”, si fa avanti un bimbo con lo sguardo basso “Di qua” dice l’uomo, spingendolo verso il primo vagone, “…Casolaro Rosa” continua con voce stentorea. Uno dopo l’altro sono divisi in modo che ad ogni gruppo corrisponda un vagone.
La radio nella cabina comandi, sintonizzata sul bollettino meteorologico, continua a prevedere mal tempo.
Paola si mette in coda con gli altri tenendo per mano Michele, che si gira in continuazione a guardare la madre. Ben presto sono tutti dentro, sistemati sui sedili di legno.
Il treno è quasi pronto a partire quando, da un vagone all’altro, si sente la stesso richiamo “e cappott!” e in men che non si dica tutti i bambini si tolgono il cappotto con la targhetta di riconoscimento faticosamente cucita dalle crocerossine su ogni capo, e lo lancia dai finestrini agli altri che rimangono, ai quali serve di più. Sono così veloci che la stazione si svuota in un attimo e non c’è più modo di recuperare le giacche. Sul treno hai voglia a chiedere i nomi vagone per vagone a tutti i bambini. Nessuno risponde! “Come ti chiami?” chiedono le donne del Comitato, ma i bimbi girano la faccia. Poi però portano il pane e le lingue cominciano a sciogliersi. “Io mi chiamo Giuseppe, Giuseppe Russo”, “Io Maria di Girolamo… c’ho così anni” dice un'altra aprendo la manina con le cinque dita allargate. Quando viene il suo turno, Paola dice il nome con un filo di voce che nessuno sente e Michele è costretto a ripeterlo lui. “Che begli occhi” dice la sorvegliante alzandole il mento con un dito, “più azzurri del cielo”. Paola abbassa con forza la faccia, perché è quello che le dice sempre sua madre.
Ci vogliono ore prima che, liste alla mano, riescano ad identificarli tutti ed a ricucire altre targhette numerate, stavolta direttamente sui vestiti. Quelli che proprio non vogliono parlare sono convinti con un trucco: “Antò’” gridano loro passando per i vagoni fino a che uno non si gira istintivamente sentendosi chiamare, “Allora si ttu Antonio!” e lo acchiappano al volo per cucirgli la targhetta. Gli ultimi due, un maschio e una femmina, sono identificati per esclusione. “Perché non ci volevi dire che ti chiamavi Ciro?” chiede una donna del comitato al bambino scontroso che non spiccicava una parola, “sei muto forse?”. Il ragazzino la guarda duro, “Aveva essere fesso a ddicere o nomme mio” risponde quello prima di richiudersi nel suo mutismo.
Finalmente il treno si muove e tutti si stringono l’un l’altro per farsi calore, mentre le donne passano tra i vagoni per portare coperte e parole di conforto.
Non piange nessuno, qualche bimbo al massimo si lamenta nel sonno.
Paola guarda il fratellino che tira su col naso, sonnacchioso. La mamma si è raccomandata di badare a lui finché resteranno insieme e lei combatte contro il sonno fino a che Michele, cullato dal dondolio del treno, non crolla tutto arrotolato come un gattino. Solo allora Paola chiude gli occhi e s’addormenta.

Si svegliarono a Reggio Emilia.

venerdì 21 settembre 2007

La gara di mitto

Se solo ci ripenso adesso. Se solo ripenso a quanta vergogna ho provato, in quella lunghissima mezz’ora, vengo sopraffatta da una rabbia così profonda, da un tale rodimento di fegato, che nessun lasso di tempo potrà mai cancellare, nonostante la brillane laurea in psicologia e le pubblicazioni su Riza psicosomatica.
Lui e la sua maledettissima gara di mitto.

Quella mattina, l’insigne Professor Dottor Mastrangelo, vice-rettore della facoltà di medicina, esperto in neuropsichiatria infantile nonché presidente della mia commissione d’esame, m’aveva accolta con un espressione di arroganza e sufficienza da irritare una santa, figuriamoci io.
Ero riuscita a rimanere ferma, seduta, immobile davanti a lui senza mettermi a piangere, solo perché mi costringevo a concentrarmi sul suo parrucchino, di un osceno colore rossiccio, e il fatto che lui cadesse a pezzi, che era nella curva discendente della vita, mi dava un senso atavico di sicurezza.
“Allora signorina, mi parli di queste fasi”.
Ok. Calma e concentrazione. Le fasi. Le fasi le so. “Du… dunque” inizio balbettando, con la bocca così secca che neanche in pieno Sahara, “praticamente le fasi sono tre: orale, anale e fallica…”
“’Genitale è più corretto” mi corregge, “non succede solo ai maschietti”
Dice “maschietti”. Chi è che dice ancora “maschietti”? Ma che fa, sfotte?. M’impappino, immediatamente, “No, si, giusto, genitale, infatti… allora… praticamente…”, cerco di recuperare, “la prima si verifica nel neonato, che infatti tende a mettersi le dita in bocca e a mangiare qualsiasi cosa gli capita per le mani, la seconda è… praticamente…”
“Praticamente o teoricamente?” s’informa lui con un insopportabile aria da tuttologo, “la prego, si risparmi tutti questi inutili intercalari”, e io, “E… si, certo, dunque… allora… stavo dicendo…” Non mi ricordavo più quello che stavo dicendo.
“Parlavamo della fase anale” fa lui con un ghigno malefico stile stragatto.
Come è possibile che quest’uomo sia un medico e salvi esseri umani?, mi domandai mentre lui continuava a parlare, “Nella fase orale si trae piacere dall'incorporare, si sugge non solo per il bisogno di nutrirsi, ma anche per un desiderio di tipo sessuale…” disse lui calcando le parole “nella fase anale il bambino eroticizza altre parti… su, vada avanti…”
Io avevo la pianura padana nel cervello, e un unica domanda risplendeva al centro: Perché diavolo ho portato Freud?
Tormentandomi le mani sudaticce cerco di proseguire “Si, dunque… la seconda, la seconda fase è quella… quella…”
“Anale, lo abbiamo già detto” commenta lui con un espressione da psicotico.
“già… analeanale anale…” ripeto io imbambolata, come in quei giochi stupidi in cui ti fanno ripetere una parola che sembra senza senso tante volte di seguito fino a che non ti rendi conto che stai dicendo qualcosa di volgare tipo “ionico”.
La temperatura corporea mi era aumentata di circa tre gradi nel giro di due-tre secondi, un sudore sottile mi aveva ricoperto ovunque e mi cominciò a colare sulla schiena.
Era il mio esame di maturità, cazzo. Stava andando malissimo e in più parlavo di buchi di culo con un uomo più che adulto, un dottore porca miseria, che era lì per giudicarmi, con la bilancia del potere che pendeva inesorabilmente dalla sua parte.
“In questa seconda fase…” riprovai, cercando di pensare ad un qualsiasi sinonimo adatto. Consapevole di non riuscire a sopportare di nominare anche solo un'altra volta quel maledettissimo orfizio sul quale lo psichiatra ebreo aveva fondato metà delle sue teorie, “in questa seconda fase il bambino trova eccitante il momento in cui i genitori… in particolar modo quello di sesso opposto… insomma… stimola questa zona… per esempio… durante il cambio del pannolino… il bambino può addirittura avere l’istinto di mangiarsi le proprie feci… proprio per un’istintiva… ehm… ricerca del piacere”.
Oddioddioddio. Ho detto che mangiare merda è bello? Cerco di recuperare, “Freud descrive il neonato come un essere già capace, fin dai primi giorni di vita, di provare sensazioni erotiche, fino a circa i quattro anni d’età, dopo subisce una quiescenza fino alla pubertà… sposta l’attenzione…”
“Signorina, questo concetto è un po’ confuso, vuole essere più precisa, non so, fare qualche esempio?”
“Volevo dire che il bambino… insomma il bambino…” erano cose che sapevo benissimo, le avevo ripetute senza nessun problema, anche a mio padre, appena due giorni prima, porcamiseria.
“Forse vuole dire che trattenendo e rilasciando gli escrementi il bambino sensibilizza la zona anale e quella uretrale attivando un ulteriore fonte di piacere?”
“Si, proprio così, infatti…” mormoro io ormai del colore del ravanello.
“Signorina…”cercò il mio nome sul registro che aveva davanti, fece scorrere l’indice sull’elenco, lo trovò, “…signorina Onorato, non mi sembra molto preparata, non ha mai visto i ragazzi quando si mettono in fila e fanno a gara per vedere chi manda il mitto più lontano?”
“Il che?” feci io allibita, cercando di recuperare nella memoria qualcosa che mi indirizzasse verso una comprensione, se non proprio totale, per lo meno orientativa dell’argomento in questione.
Mitto mitto, pensavo frenetica, mitto, dal latino, mittere, emettere, lasciar andare, lanciare fuori, che cavolo è la gara del mitto porcaputtana?!
“Il mitto signorina, il getto, come lo chiama lei?” si spazientì lui “Quelle gare che fanno i ragazzini tra di loro. Non li ha mai visti?”
No, non li avevo mai visti, avrei dovuto rispondere. Avrei dovuto dire che i miei amici facevano a gara a chi ce lo aveva più lungo, a chi beveva più birre in una sola sera o magari a chi riusciva a farsi più ragazze in un estate, ma questa gara del mitto proprio non l’avevo mai vista né sentita, forse ai suoi tempi, avrei dovuto dire.
Quella notte sognai cinque Huckleberry Finn, col cappello di paglia in testa, le braghe calate e i pisellini in mano, che cercavano di superare con la piscia una linea fatta di legnetti. Io correvo avanti e indietro brandendo un metro da sarta.
Forse era a qualcosa del genere che si riferiva; non mi fu mai particolarmente chiaro, non lo fu per nessuno della commissione. Forse se lo era inventato solo per mettermi in difficoltà.
Mi diplomai con un tristissimo 41.
L’onta non fu mai lavata.

giovedì 20 settembre 2007

scrivo

Un bel giorno, un uomo con splendidi baffi biondi mi ha detto – Io voglio fare il regista -.
Ha detto subito così, deciso.
Ho pensato che fosse molto affascinante, come se avesse detto astronauta o ballerina, considerando cinicamente la stessa vaga probabilità di riuscita.
Qualche sera dopo, in una scenografia a lume di candela, su un letto con lenzuola rosso-bordò, ha mormorato rapito “Sei bella su questo colore”.
“Cazzo, regista dentro” ho pensato io.
Mi sono resa conto allora che lui faceva sul serio, o quanto meno si comportava come se lo fosse veramente, ci credeva, aveva la direzione giusta, l’atteggiamento adatto.
Io voglio fare il regista.
Io voglio fare.
Io voglio.
Io.
Mi sono vergognata tremendamente.
Io, al contrario, mi nascondo spesso, mi distraggo sempre, mi lascio distogliere, non dico, non sono poi così sicura.
Visualizzo il tempo e il talento sperperati in torrette di smemoranda fitte fitte, come se fosse impossibile ancora prima d’iniziare. Senza coraggio.
Da ragazza era sempre la stessa storia Parli come un libro stracciato, Non metti i soggetti, Non ti seguo più, Ti spieghi una vera merda e io giù a citare Gibran La metà di quello che dico è incomprensibile, ma la dico affinché l’altra metà arrivi pura e cristallina.
Non è cambiato molto da allora. La mia difficoltà è rimasta più o meno la stessa. Non riesco a spiegarmi bene, a decidere in fretta, m’incarto mentre parlo, faccio gravi errori d’ortografia, mi invento le cose, sfuggo le responsabilità, me ne fotto. Sempre stata una bambina di otto anni, dieci forse.
Eppure ci ho provato, a distrarmi dall’idea, per tempi lunghissimi non l’ho considerata neanche una possibilità realistica Ma chi ti credi di essere?
Lo giuro c’ho provato, a sostenere progetti che mi sembravano più interessanti, utili, divertenti, socializzanti, concreti, coerenti. Ci provo sempre, a tenere a bada la mia natura. Lei non è proprio dolce, attenta, accondiscendente come me, è più irresponsabile, egocentrica, pericolosa, ingenua, feroce. Una bambina, che vergogna.
Posso fare la fidanzata, la figlia, la collega, l’altra parte della mela, l’anello mancante, la parte utile, ma voglio prima di tutto scrivere in pace.
Virginia Woolf ha ragione, serve una stanza tutta per se e io pensavo di non poterla avere Non scriverò mai niente che valga la pena di essere letto. Forse non l’ho mai cercata veramente (la vergogna aumenta in maniera esponenziale).
Vado dappertutto e mi sento sempre di passaggio. Che cosa ho che non va? Perché mi ritrovo sempre con le gambe che sprofondano lentamente nelle sabbie mobili di interessantissimi progetti che non sono per me?
Sono miope, ma non porto gli occhiali. Ho sempre letto con luce scarsissima, da sola, quando avrei dovuto/potuto dormire; ed ho sempre scritto dappertutto, anche su treni e aerei, in macchina col mal di mare, per strada. Se non c’è il computer a matita, preferisco, anche se è l’unica scripta che non manent, non importa; lo faccio da sempre, da quando mi ricordo, mangiucchiando, dopo aver scopato, mentre piango.
In 4° elementare scrissi una poesia in rima baciata intitolata La spilla Camomilla. Narrava rocambolesche avventure di una sfortunata spilletta da balia.
La declamai con enfasi alla mia amichetta del cuore, durante l’intervallo, e ridemmo tanto da pisciarci addosso. La cosa ci fece ridere ancora di più, faticammo a smettere.
Per ovviare al problema scappammo in bagno, ci togliemmo le mutandine bagnate e le nascondemmo, chiuse in un sacchetto di plastica, ovviamente nella mia cartella perché ero io la più disordinata.
Rimanemmo in uno stato di felicità totale per l’intera giornata, ridacchiando in continuazione, ripetendoci a memoria i passaggi più buffi e prendendo strilli in testa dalle maestre. Quel giorno eravamo state invitate a pranzo a casa di una nostra amica e dopo mangiato le svelammo il segreto. Lei si scandalizzò così tanto che volle assolutamente prestarcene due delle sue. Quella che mi diede la conservo ancora, come monito Non si può andare in giro senza mutande, non si fa, e basta.
Mio padre una volta ha detto Pensa alla grande, me lo ricordo ancora. Dice cose del tipo Ginger Rogers faceva le stesse cose di Fred Astaire, ma con la gonna e con i tacchi a spillo, quando poi gli ho spiegato che lo stavo facendo e anche per questo mi ero licenziata, ha sfregato pollice ed indice insieme come a dire “e i soldi?”.
Mia madre, invece, è una donna manualmente molto abile, brava a disegnare, lavora la ceramica, crea forme. Dopo che io per anni ho evitato come la peste il suo laboratorio, ho sentito che diceva di me a qualcuno “E’ un’artigiana della testa, non delle mani”, come a giustificarmi, e la cosa non mi è dispiaciuta.
Forse voleva dire che sono una di quelle che magari non te lo dimostra, però magari te lo scrive.
Comunque la prima e unica volta che mi hanno pagato in soldoni una stronzata di articolo mi sono sentita una grande, anche se l’euforia è durata poco, il tempo di consumare i soldi. Però ha fatto capolino un po’ di orgoglio.
Tutto diventa più potente, è come una folgorazione, un cerchio che si chiude.
Quando fomento il mio lato tragico sono una di quelle a cui piace farsi un po’ male, una fancazzista, anche.
Il nodo in gola ogni tanto c’è ancora, ma finalmente posso prendermi per il culo, tirarmela a pazzi, mettere “Scrittrice” nello spazio dove c’è da indicare “Professione” (come se scrivere fosse un lavoro).Ancora fatico un po’ a prendermi sul serio, l’imbarazzo c’è ancora, il disagio non è vinto, ma io scrivo.